di Gianni Lannes
(fonte: Terra Nostra, 28 Febbraio 2011)
La fenice era un mitico uccello che, dopo un ciclo
vitale di 500 anni, moriva nel fuoco risorgendo poi dalle sue ceneri. Ma se
queste ridavano vita al mitico volatile, oggi mettono a repentaglio l’esistenza
dei cittadini lucani del Vulture-Melfese, quelli pugliesi del basso Tavoliere
nonché della Murgia barese.
Nell’area di San Nicola di Melfi (a meno di 3 chilometri da Lavello e a 2 dal fiume Ofanto), infatti, la Fiat – grazie a finanziamenti e agevolazioni statali – ha messo in funzione dal settembre 1999, contro la volontà della popolazione locale che si era pronunciata negativamente con un referendum, un inceneritore di rifiuti tossico-nocivi che avvelena innanzitutto gli operai della Sata (Fiat).
L’inquinamento a base di sovrabbondanti iniezioni
di mercurio nelle falde acquifere dell’area è noto ai passivi addetti ai lavori
ma la magistratura non interviene. Il procuratore della Repubblica di Melfi –
Renato Arminio – dorme sonni beati? Ad un tiro di schioppo sorge il più
importante stabilimento della Barilla nel Mezzogiorno, imbottito di amianto a
perdere.
Coltivazioni agricole ed ovini al pascolo
completano il quadro locale. «Da queste parti – racconta Giulio P., 21 anni,
studente di Lavello – il ricatto del lavoro è fortissimo. I dirigenti della
Fiat dicono che se vogliamo tenerci le fabbriche dobbiamo accettare anche
l’inquinamento, le malattie, i tumori e la distruzione delle terre. Vuole un
esempio? Qui c’era una selva di uliveti plurisecolari, altamente produttivi,
che la Fiat ha raso al suolo per insediarsi». Conseguenze epidemiologiche? «I
residui della combustione ammontano a 27 mila tonnellate annue» recitano i dati
ufficiali ampiamente sottostimati.
Si tratta di materia solida e letale che finisce
nel sottosuolo della Basilicata – inquinando le falde come ha denunciato l’OLA
– e nel fiume Ofanto che si getta nel mare Adriatico. Non è tutto. L’altoforno
industriale sputa nell’atmosfera di una delle zone di maggior pregio agricolo
del Mezzogiorno – dove lavorano centinaia di aziende agricole, zootecniche,
turistiche e delle acque minerali – milioni di metri cubi di fumi fortemente
nocivi. «Emissioni oltre i limiti normativi di polveri di metalli pesanti,
ossidi di azoto e diossine» accerta periodicamente l’azienda sanitaria locale.
Nella scarsa documentazione resa pubblica dalla
Fiat, queste sostanze segnalano gli indici più preoccupanti: esalazioni nella
misura di «un nanogrammo a metro cubo di rifiuti bruciati», mentre la normativa
europea si attesta su un limite di dieci volte inferiore, ovvero 0,1 nanogrammi
a metro cubo. La potenzialità cancerogena e mutagena di tali veleni è nota a
livello internazionale da decenni. Il gigante automobilistico italiano getta
acqua sul fuoco: «E’ tutto sotto controllo: la piattaforma di San Nicola
risponde ad una logica concordata qualche anno fa col ministro dell’ambiente
Ronchi». Il gruppo transalpino Edf neanche risponde. Eppure, in uno studio
elaborato da Luigi Notarnicola, docente del Dipartimento di Scienze geografiche
e Merceologiche dell’Università di Bari, emergono dati inquietanti. «Le
documentazioni tecniche disponibili non consentono di escludere effetti
negativi sulla popolazione di Lavello e nell’intero territorio – scrive il
professor Notarnicola – L’insediamento della Sata (Fiat, ndr) e della
piattaforma Fenice porta un’immissione nell’atmosfera di oltre 12 milioni di
metri cubi all’ora di fumi». E ancora: «Ai danni per la popolazione di Lavello
associati all’inquinamento atmosferico vanno aggiunti quelli derivanti
all’agricoltura fiorente in tutta la valle, dagli elevatissimi prelevamenti di
acqua potabile (12,5 milioni di metri cubi all’anno)».
Una nota dell’assessorato regionale all’ambiente
rivela: «Nell’autorizzazione a Fenice avevamo imposto il divieto di
importazione di rifiuti da fuori regione». Ma i controlli scarseggiano. A
fronteggiare casa Agnelli sono due gruppi combattivi e organizzati: il Comitato
dei cittadini di Lavello e l’associazione “Uniti per Melfi”. Poi ci sono altri
aggregati nei paesi limitrofi, anche in Puglia. Per esempio a Rocchetta
Sant’Antonio e Bovino. R. S., operaio Sata solleva interrogativi: «Perché un
termodistruttore a Melfi? Forse perché non si possono più usare i vecchi
sistemi di smaltimento ormai noti, e quindi è bene realizzare nuovi mezzi di
avvelenamento e ubicarli dove la gente è poca e non ha la forza di contrastare
i colossi della grande finanza».
I fatti appaiono inequivocabili: il progetto
“Fenice” bloccato a Biella, è passato in Basilicata con una delibera regionale
il 2 maggio 1995, approvata da una giunta ormai sciolta (le nuove elezioni si
erano svolte una decina di giorni prima) e non ha mai ricevuto la ratifica del
consiglio regionale, prevista per legge entro 30 giorni. Il nuovo governo
regionale ha impugnato la delibera e presentato ricorso al Tar, che però ha
dato ragione alla Fiat. La Regione, comunque, ha nominato tre esperti per
valutare l’impatto ambientale, e i tecnici nello stupore generale, hanno
espresso un giudizio di fattibilità dell’opera.
Trascorrono solo alcuni mesi e due dei tre membri
di quella commissione passano ad altri incarichi: uno, l’ingegner Valicanti,
entra direttamente nell’orbita Fiat e viene chiamato alla direzione dei lavori,
addirittura nel cantiere dell’inceneritore; l’altro, il professor Cuomo, viene
indicato come responsabile del monitoraggio ambientale della zona. E’
decisamente improbabile che le tesi rassicuranti dell’azienda automobilistica
convincano i lucani. Gli stessi cittadini che il 25 ottobre 1998, con un
referendum consultivo avevano detto “no alla Fenice”. Un rifiuto avvalorato dal
sequestro giudiziario il 7 luglio 2001 a Melfi di 8 vagoni merci stracolmi di
rifiuti industriali e ospedalieri provenienti da Forlì (movimentati dalla ditta
Mengozzi), a Foggia di altri 27 carri, 9 a Brindisi e 5 a Falconara in provincia
di Ancona. Si trattava di 400 tonnellate di “materiali a rischio infettivo”. Il
serpentone ferroviario carico di residui letali non si è ancora interrotto,
vaga per lo Stivale in direzione sud. «Le scorie contengono rifiuti ospedalieri
classificati dalla normativa vigente come pericolosi»segnala il sostituto
procuratore Ugo Miraglia del Giudice. Provengono da Forlì, Torino, Genova, Vado
Ligure, Treviso, ma anche dall’estero. Destinazione finale: la “Fenice” di
Melfi. «Non possiamo controllare tutto» dicono all’unisono i dirigenti di
Trenitalia Luigi Irdi e Claudio Cristofani.
Gran parte dei documenti di viaggio dei vagoni
fantasma indicano luoghi di partenza, itinerari e percorsi alla luce del sole.
Dalla Francia, spicca, in particolare, il tragitto Amiens-Modane-Ventimiglia-Orbassano
utilizzato dalla Whirlpool Europe e da altre aziende senza apparente identità.
«Materiale innocuo, elettrodomestici, indumenti usati» si legge nelle bolle
d’accompagnamento. Ma allora per quale ragione negli stessi documenti i tecnici
delle FS annotano: «Da maneggiare con estrema cautela»? In un altro documento
delle FS, il numero 46, compilato a Napoli il 2 aprile dal capo manovra Mazzone
è scritto: «Dalla prima traccia parte carro di rifiuti ospedalieri n. 12033325
diretto Oristano (prestare attenzione è merce fragile)». Il vagone però finisce
a Brindisi. Altri vettori da decine e passa di tonnellate cadauno, provengono
dalla General Motors di Livorno, dalla Cemat di Padova, dalla Hike Coop di
Mantova. Ed è curioso che la Polimeri Europa di Brindisi spedisca alla
Piccinini presso l’interporto di Parma, “resine sintetiche in granuli” che
finiscono nell’inceneritore di Melfi. Identico copione per la Waste Management
di Massa che invia rifiuti non meglio identificati alla Sipsa di Oristano.
Perché le Fs raccomandano di “maneggiare con precauzione” i capi
d’abbigliamento? I carri contengono realmente oggetti innocui? Il professor
Giorgio Nebbia, esperto di fama internazionale non ha dubbi: «Nessuno ne
conosce la provenienza, l’esatta composizione chimica nonché la pericolosità».
E aggiunge: «Pullulano decine di eco-imprese che vendono lo smaltimento in
inceneritori, in impianti di compattazione, in discariche: quello che conta è
che i rifiuti non si vedano e non puzzino».
L’Ocse stima che «Tre quarti dei rifiuti
pericolosi europei, circa 30 milioni di tonnellate annue, siano di origine e di
composizione sconosciute». I dati ufficiali dell’Unione europea condannano il
Belpaese: solo negli ultimi 21 anni sono stati occultati «1 miliardo di
tonnellate di rifiuti d’ogni genere». Dove sono finiti? I tentacoli della
piovra si sono allungati da nord a sud. L’internazionale dei veleni, infatti,
oltre che nei Paesi del Terzo mondo, si è data appuntamento nel Mezzogiorno
d’Italia.
L’Organizzazione Lucana Ambientalista torna
nuovamente a chiedere la sospensione dell’attività del termodistruttore,
nell’area di San Nicola di Melfi, della società Fenice-EDF SpA, al fine di
accertare le cause del grave inquinamento provocato alle falde idriche e di cui
oggi più nessuno parla. L’attività presso il termodistruttore Fenice ha
provocato una grave ed estesa contaminazione delle acque da sostanze pericolose
cancerogene e metalli pesanti, di cui non si conoscono le cause, con rischi
sulla salute dei cittadini e l’ambiente.
La richiesta della OLA è indirizzata alla Regione
Basilicata anche alla luce di un’inchiesta del Corpo Forestale dello Stato che
ha portato ad emettere 10 avvisi di garanzia per dirigenti della società Fenice
SpA, collegata all’attività dello stabilimento Fiat di Cassino. La società
Fenice SpA, controllata dal grande gruppo energetico francese EDF, è stata
accusata di aver classificato “fanghi pericolosi” come rifiuti innocui, in modo
da smaltirli illegalmente a basso prezzo. In non meglio specificate discariche
finiva così una miscela agghiacciante di schifezze, una bomba ecologica,
secondo varie analisi, piena di sostanze tossiche che si sarebbero dovute
trattare in modo completamente diverso.
L’intera indagine sarebbe nata dopo alcune frasi intercettate
ad un imprenditore di Frosinone. Il sistema incriminato è sempre lo stesso,
identico a quello che avrebbe permesso lo smaltimento a basso costo di
multinazionali come Procter&Gamble, Lucchini e Marcegaglia. Gli scarti
della produzione più a rischio vengono fatti esaminare da laboratori
compiacenti, che assegnano ai rifiuti un codice CER “non pericoloso”.
riferimenti:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2015/07/fenice-linceneritore-che-avvelena-la.html
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http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2015/07/fenice-linceneritore-che-avvelena-la.html