di Gianni Lannes
Il
dovere della memoria: per non dimenticare mai
ciò che hanno patito i figli del Sud. Dal 1870 al 1930 ben 30 milioni di
persone nate in Italia sono state costrette dalla miseria e dalle
persecuzioni dello Stato tricolore a lasciare la propria patria. Quello
che tanti non sanno è che il piano di
deportazione dei Savoia è ancora oggi un segreto di Stato, sepolto nei
documenti diplomatici conservati
all’Archivio storico della Farnesina.
Deportazione
di massa - Il piano di deportazione è scritto nero su
bianco: il progetto delle «Guantanamo» di casa Savoia si rintraccia nei
documenti diplomatici conservati all’Archivio storico della Farnesina. Secondo
alcune carte seppellite dall’oblio, il presidente Menabrea provò prima a
sondare gli inglesi, chiedendo loro un’area nel Mar Rosso, senza riuscirci.
Quindi, il 16 settembre del 1868, il capo del governo italiano contatta il
Ministro Della Croce a Buenos Aires, perché domandi al governo argentino la disponibilità
di una zona «nelle regioni dell’America del Sud e più particolarmente in quelle
bagnate dal Rio Negro, che i geografi indicano come limite fra i territori
dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia». Anche questo secondo
tentativo, però, annega in un buco nell’acqua, perché tre mesi più tardi, il 10
dicembre, Menabrea è già all’opera per trovare soluzioni alternative. Contatta
il console generale a Tunisi, Luigi Pinna, e gli chiede di «studiare la
possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana». Ma
anche i tunisini oppongono un no. A questo punto Menabrea ritorna alla carica
con gli inglesi. Prima chiede loro di poter costruire un «carcere per
meridionali» sull’isola di Socotra (tra la Somalia e lo Yemen), quindi domanda
loro di farsi perlomeno da tramite con l’Olanda, perché conceda
un’autorizzazione identica per un’area del Borneo. Menabrea e il governo
italiano sono assolutamente convinti della necessità di deportare lontano dalla
terra madre i criminali del Sud. Il senatore Giovanni Visconti Venosta, più
volte ministro degli Esteri, incontrando il ministro d’Inghilterra sir Bartle
Frere, si spingerà a dirgli: «Presso le nostre impressionabili popolazioni del
Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce
più della stessa pena di morte».
È l’idea di abbandonare la famiglia, il Paese
natale, il deterrente che il governo considera la carta giusta per sconfiggere
la lotta contadina. Tanto più che in quegli anni sta nascendo il mito di alcune
figure come Carmine Crocco (detto Donatelli) brigante che riesce a riunire
intorno a sé una banda composta di almeno 2500 uomini e che viene visto come un
eroe dalla popolazione locale e lo stratega imprendibile Michele Caruso di
Torremaggiore.
Campi
di concentramento - Le istanze del governo italiano,
però, cadono nel vuoto. Il 3 gennaio 1872 il governo inglese fa sapere di non
vedere di buon occhio la creazione di un enorme centro penitenziario per i
meridionali italiani. Il 20 dicembre di quell’anno anche l’Olanda si defila:
concentrare criminali italiani in un luogo circoscritto viene visto come un
problema per la sicurezza interna. Gli ultimi tentativi risalgono al 1873. Il
lombardo Carlo Cadorna, Ministro a Londra, prende contatto con il conte Granville,
Ministro degli Esteri inglese, ancora per il Borneo. E ancora una volta, da
Londra, arriva un rifiuto. Nel frattempo, le carceri dell’Italia Unita
traboccavano di meridionali e i briganti continuavano a combattere. L’11
settembre 1872, il “Times” pubblicò una lettera giunta da Napoli che metteva in
luce la recrudescenza del brigantaggio in Italia. Il “Times” ci aggiunse un
articolo di fondo in cui non si risparmiavano sferzate ai Piemontesi per
l’incapacità di «eradicare completamente una così grave piaga».
Oltre
il patibolo - Convinto che la paura della
deportazione in terre lontane avrebbe spaventato i meridionali più di qualunque
tortura e perfino della morte, il Ministro degli Esteri, Visconti Venosta,
decise di mettere alle strette gli inglesi. Il 19 dicembre 1872, a Roma,
incontrò il ministro d’Inghilterra Sir Bartle Frere e gli parlò chiaro. Il suo
discorso è ancora agli atti, negli Archivi della Farnesina. Disse: «Se ci
ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza,
se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi
ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere
in ogni caso le circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare – disse il
Ministro della neonata Italia – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena,
quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili
popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie
e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono
atterriti all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti,
vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo». Sir Bartle Frere prese
tempo ma i piemontesi non si arresero. È del 3 gennaio 1873 un documento
confidenziale in cui Cadorna ragguaglia Visconti Venosta sul colloquio avuto
col conte Granville relativamente alla «cessione di una parte della Costa Nord
Est dell’isola di Borneo». Il rappresentante del Governo italiano disse al
Ministro degli Esteri inglese che i briganti «avvezzi a mettere la loro vita in
pericolo, resi più feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo
stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la
fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro
famiglie terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel
Mezzodì, ove è grande l’attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il
pensiero di non vedere più mai il sole natale, la moglie, i figli, di passare,
e finire la vita in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è
pensiero che atterrisce». Granville però fu irremovibile: l’Inghilterra non
avrebbe aiutato l’Italia a deportare i Meridionali.
Sepolti
vivi - Ma quanti erano i detenuti del Sud che marcivano nelle galere italiane?
Secondo la rivista «Due Sicilie» (diretta da Antonio Pagano), un’indicazione si
trova in una lettera del savoiardo Menabrea, al Ministro della Marina, il
nizzardo Augusto Riboty. Menabrea sostiene che sarebbe stato «utile e urgente»
trovare «una località dove stabilire una colonia penitenziaria per le molte
migliaia di condannati» che popolavano gli stabilimenti carcerari. A proposito
della Marina Militare, la Forza armata si prestò ad esplorare una serie di luoghi
adatti alla deportazione dei meridionali. Il Borneo e le isole adiacenti,
innanzitutto, ma anche – secondo documenti pubblicati da «Due Sicilie» – «l’est
dell’Australia». L’anarchico Giovanni Passannante che la sera del 17 novembre
1878 attenta con un temperino alla vita di Umberto I di Savoia, rimedia decenni
di segregazione e torture fino a quando muore nel 1910 all’interno del
manicomio di Montelupo Fiorentino. Il suo cranio ed il cervello sono stati
esposti fino a qualche anno fa in un museo criminologico, ma ora riposano a
Salvia di Lucania. I libri di storia tricolore dopo un secolo e mezzo
ancora nascondono la verità. Chissà
perché? Altro che “Unità d’Italia”: è in atto ancora la morte civile. Infatti,
solo negli ultimi dieci anni, ben 700 mila giovani laureati sono stati
costretti ad abbandonare il Sud. E anche se non vige più la pena di morte, va
in scena la morte per pena.
riferimenti:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=savoia
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2017/04/briganti-quei-ribeli-del-sud.html
riferimenti:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=savoia
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2017/04/briganti-quei-ribeli-del-sud.html
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