Puglia: ulivi plurisecolari in riva al mare - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
di Gianni Lannes
Su 800 milioni di esemplari censiti e disseminati in
tutto il mondo, 700 milioni vegetano nei Paesi del Mediterraneo, sparsi su
oltre 9 milioni di ettari, 150 dei quali in Italia, dove l’albero è coltivato
dall’epoca preromana.
Gargano: trappeto plurimillenario in grotta (abbandonato) - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
Le zone di maggior produzione erano e sono la Puglia
e la Campania, che a partire dall’XII secolo iniziarono ad esportare il loro
prodotto, particolarmente apprezzato per la qualità, in tutto il Mediterraneo,
Costantinopoli compresa.
Si faceva così. Lo strumento per la produzione
dell’olio, il frantoio, è una delle attrezzature che meno ha subito modifiche
nel corso del tempo, al punto che si può ritenere quello di epoca medievale non
sia molto dissimile dagli ultimi impiegati prima delle rivoluzione industriale.
Puglia: un mare di ulivi - foto Gianni Lanens (tutti i diritti riservati) |
In Puglia esso era generalmente situato in aperta
campagna, nei pressi degli uliveti, oppure era collocato all’interno di grotte
naturali o scavate nel tufo, soprattutto nel Gargano. A Vico Garganico (luogo
di origine illirica) nel borgo antico si può ammirare un esemplare integralmente conservato
in un museo, ma purtroppo le campagne della "montagna del sole" sono disseminate di questi gioielli archeologici in stato di totale abbandono. In Toscana, invece, esso era generalmente situato al piano terreno di una
casa d’abitazione.
ulivo monumentale - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
La macinatura delle olive veniva effettuata da una
macina posta verticalmente e attraversata da un palo cui era aggiogato
l’animale (sovente l’asino) che doveva fornire la forza motrice.
La pasta che si otteneva veniva stesa su dischi fatta
di grossi canapi, bucati al centro in modo da poter essere infilati uno sopra l’altro nella
pila, sorta di gabbia di legno a doghe parallele un po’ discoste l’una
sull’altra, con al centro un palo.
Una volta riempita la pila di dischi e pasta, aveva
luogo la spremitura e vera e propria, che si effettuava mediante compressione
con un torchio.
L’olio colava dalle fessure tra doga e doga e veniva
raccolto in un recipiente posto alla base. Tra un’operazione e l’altra la pila
veniva pulita e lavata con acqua; il liquido che così si formava si raccoglieva
in una buca sottostante, scavata nel pavimento, dal nome espressivo di
“inferno”. Quest’ultimo prodotto di scarto (la morchia) non era buttato via, ma
una volta decantato, in modo da far venire a galla l’elemento oleoso, veniva
impiegato per illuminazione.
Salento: piede d'Ercole - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
In Puglia tanto grande era la produzione di olio che
la raccolta, rielaborazione e commercializzazione di questo residuo davano
luogo a una particolare figura artigianale, quella del morcharius. La pasta di olive ormai completamente spremuta (la
sansa) serviva come fertilizzante in agricoltura.
I confini della zona di coltura dell’olivo
coincidono co quelli dell’area climatica influenzata dal mar mediterraneo,
essendo questo albero molto sensibile alle oscillazioni di temperatura. L’associazione
ulivo e Mediterraneo ha origini antichissime e la ritroviamo nelle tradizioni
letterarie delle genti che per prime giunsero ad abitarne le sponde. E’ un
ramoscello di questa pianta che la colomba porta a Noè, a significargli la fine
del diluvio, ed è su un tronco di un esemplare secolare che Odisseo costruisce
il suo inviolato talamo nuziale.
In passato, segnatamente nel periodo definito Alto
medioevo, la sua coltura si estese anche a zone continentali, poco favorevoli
ad essa, come ad esempio la pianura Padana; questo fu dovuto alle necessità
dell’economia autarchica impostasi a seguito della caduta dell’impero Romano,
per cui non era più è possibile rifornirsi di certe derrate e di conseguenza
bisognava adattarsi a coltivarle anche là dove sarebbe stato sconsigliato.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, a quell’epoca,
si aveva bisogno dell’olio non tanto per uso alimentare, quanto essenzialmente
a fini liturgici; esso è infatti elemento fondamentale in quasi tutti i sacramenti
della Chiesa cattolica, dal battesimo alla cresima, dall’ordinazione sacerdotale
all’unzione degli infermi, per non parlare poi del lume acceso giorno e notte
di fronte al santissimo o di certe solennità come la domenica delle Palme.
Questo fa sì che ogni piccola comunità rurale, come
pure ogni chiesa o monastero, pratichi la coltura dell’olivo anche in zone dove
essa risulta assolutamente antieconomica o soggetta al continuo rischio di
gelate.
In epoca altomedievale, assistiamo al proliferare di
testamenti nei quali vengono lasciate a chiese e monasteri, alcune piante
espressamente pro luminaria, vale a dire per tenere acceso un lume davanti ad
un altare o di fronte a una particolare immagine, in memoria eterna di un defunto
di alto ceto sociale.
L’olio di oliva è dunque, nell’Italia settentrionale
di epoca alto medievale, un bene di lusso.
foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
Diversa ovviamente è la situazione nel resto della penisola,
dove la coltura dell’ulivo rimonta all’età antica senza soluzione di
continuità.
Il settore non alimentare che maggiormente impiegava
l’olio era senz’altro quello dell’industria della lana, che lo utilizzava sia
nella preparazione dei saponi, sia nelle numerose e complesse operazioni che
precedevano la tessitura. Dopo essere stata “scamattata”, ossia battuta in modo
da aprirsi bene in tutte le sue fibre, la lana distesa su graticci veniva inzuppata
di acqua e poi cosparsa di olio, quindi avvoltolata in grandi matasse unte che
venivano rese in consegna dai pettinatori: l’olio conferiva alla lana la
necessaria compattezza per sopportare la successiva lavorazione, quella appunto
della pettinatura.
Terminata la quale, essa veniva distesa per terra e
di nuovo bagnata di acqua e olio; gli operai la lavoravano con le mani “come fusse una massa di pasta”. In modo
da farle incorporare bene l’olio, poi la piegavano in grandi bigonci che
venivano passato agli “scardassieri” che la “pigliavano a menate”.
Gargano: trappeto plurimillenario in grotta (abbandonato) - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
Già nei Salmi della Bibbia è testimoniato l’uso
insieme cosmetico e liturgico. Nella farmacopea medievale l’olio d’oliva era
impiegato come eccipiente e come medicinale, considerato rimedio miracoloso per
alcune ferite e in certe malattie, e mischiato col vino serviva a medicare le
piaghe. Con aromi e balsami si producevano oli profumati, secondo tradizioni
risalenti all’antichità classica. Quanto alla cosmesi l’olio era usato come
ingrediente per i capelli e creme per le mani. Per la screpolatura si doveva
mischiare “cera nuova, incenso maschio e
olio buono, farli bollire quanto diresti tre o quattro Credo”, sempre
mescolando fino ad ottenere un unguento.
I primi ulivi si celano lungo le coste del
mediterraneo orientale: unici veri esemplari selvatici originari: sono i
discendenti diretti degli olivi nativi che popolavano l’area mediterranea
qualche migliaio di anni fa, prima che l’uomo iniziasse a coltivarli e a selezionarli
per piegarne le caratteristiche alle proprie esigenze.
Li hanno individuati nel 2001, con un lavoro che si
è guadagnato la pubblicazione su Nature, due studiosi: la francese Roselyne
Lumaret ed il marocchino Noureddine Ouazzani.
Agrigento - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
L’olivo selvatico, detto olivastro, è un tenace
arbusto sempreverde che cresce spontaneo e abbondante nella macchia
mediterranea. Rispetto alle forme coltivate è più piccolo, irregolare, spinoso
e dà frutti piccoli, immangiabili e molto poveri di olio.
Le varietà coltivate (cultivar) vengono propagate
per via vegetativa, perché conservino intatte le caratteristiche favorevoli.
Alberi ed esseri umani sembrano scaturire dalla
medesima radice. L’ulivo invece di morire si scinde in più esemplari. E così fluttuano
come i popoli del Mediterraneo, conservando la memoria di un’origine comune.
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