di Gianni Lannes
Ecomafie di Stato e multinazionali del crimine a piede libero. In questo caso il livello di criminalità impunità è marcatamente istituzionale: le scie chimiche danno la botta finale alla salute collettiva già martoriata. In un Paese civile il popolo sovrano dovrebbe come minimo insorgere a ragion veduta. Invece.
Quasi mezzo secolo di contaminazioni nucleari nascoste alla popolazione italiana, ma certificate dall’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica). Radionuclidi dispersi nel territorio, falde acquifere comprese, incluso il fiume Po che solca appunto Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto prima di gettarsi nel mare Adriatico. Eppure le autorità negano l’evidenza, mentre la gente si ammala e muore.
Quasi mezzo secolo di contaminazioni nucleari nascoste alla popolazione italiana, ma certificate dall’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica). Radionuclidi dispersi nel territorio, falde acquifere comprese, incluso il fiume Po che solca appunto Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto prima di gettarsi nel mare Adriatico. Eppure le autorità negano l’evidenza, mentre la gente si ammala e muore.
I documenti scientifici e i rapporti tecnici del CNEN (dal 5 marzo 1982 ENEA) e dell’ENEL, già dal 1971 parlano chiaro. Purtroppo tali informazioni vitali sono rimasti nei cassetti accademici e istituzionali. E le conseguenze ambientali e sanitarie? Semplicemente oscurate dallo Stato, ovvero da tutti i governi tricolore mandati in onda nell’ultimo mezzo secolo. Il famoso oncologo, professor Umberto Veronesi in un convegno a Milano il 10 aprile scorso ha dichiarato: «50 anni fa si ammalava di tumore un italiano su 30, oggi si ammala un italiano su tre. E in futuro se ne ammalerà uno su due».
Nel settentrione d’Italia tre nomi per tutti: Trino
Vercellese, Saluggia, Bosco Marengo. Vale a dire: nel primo caso una centrale
nucleare, e poi industrie (Fiat, Eni, Enel, Sorin) per la fabbricazione del
combustibile nucleare anche di altri Stati, addirittura fino al 1995, 7 anni
dopo il primo referendum nazionale che ha bandito l’energia atomica.
Basta compulsare il periodico Notiziario del CNEN
per rendersi conto della catastrofe silenziosa in atto. In seguito non lasceranno
più trapelare nulla, ma nel 1976 (numero 7-luglio) si legge:
«TRINO
1967-1970: In occasione della prima fermata per ricarica del combustibile
vennero riscontrati estesi danneggiamenti alle strutture di sostegno del
nocciolo del reattore. Oltre allo spostamento dello schermo termico, si
riscontrò la rottura di quasi il 50% dei bulloni di collegamento tra la parte
inferiore e quella superiore del cilindro di sostegno del nocciolo, la rottura
del 70% dei tiranti nella zona inferiore della struttura e la distruzione quasi
completa del sistema interno di misura del flusso neutronico (aero-ball system).
La durata della fermata è stata determinata dalla necessità di indagare sulle
cause del guasto, dalla progettazione e l’esecuzione dei lavori di modifica e
riparazione, e dai controlli ulteriori dopo un breve periodo di funzionamento.
Durata 998 giorni». Il numero 8-9 del 1971 precisa tra l’altro che si è
provveduto all’ «aggiunta di un sistema secondario di supporto del nocciolo».
Il capitolo cruciale, appunto, è quello degli incidenti e dei malfunzionamenti mai rivelati all’opinione pubblica. Un dettaglio in più ci viene dalla relazione annuale inviata all’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica): «I segmenti dello schermo termico si sono distaccati, uno di loro riposava contro il nocciolo». E’ l’ENEL stessa ad attestare inequivocabilmente: «Le conseguenze della scarsa maturità tecnologica degli impianti si videro nella successiva fase di esercizio delle centrali, con due lunghe fermate del reattore di Trino e la chiusura del Garigliano nel 1981».
Nel 1971, tutti i pesci analizzati (erbivori, pescati a Morano Po ogni mese dal luglio 1971 al maggio 1972) contenevano cesio 137, fino a più di 100 becquerel al chilo, come rilevato da ricercatori dell’ENEL. Una contaminazione ricorrente: il pesce era nuovamente contaminato nel 1973, insieme al foraggio. Il limite di sicurezza è inquinamento pari a zero. Dosi infinitesimali sono in grado di innescare processi di mutagenesi e cancro. Nel 1977 il settimanale Epoca rivelò che «la centrale atomica di Trino Vercellese è stata ferma per incidenti 998 giorni fra il 1967 e il 1970: per buona parte di questo tempo ha scaricato nelle acque del fiume trizio radioattivo».
Nell’opuscolo della SOGIN risalente al 2008, però, non
si fa il minimo cenno alla lunga fermata del 1967-70 ed a un incidente come
origine della stessa.
Secondo le raccomandazioni dell’ICRP (Commissione
Internazionale per la Protezione Radiologica), le «Cellule
somatiche modificate possono successivamente, anche dopo intervalli di tempo
prolungati, svilupparsi dando luogo a un cancro. Meccanismi di difesa e di
riparazione rendono molto bassa questa probabilità. E tuttavia la probabilità
di un cancro risultante da radiazioni cresce con l’incremento di dose,
probabilmente senza soglia. La severità del cancro non è determinata dalla
dose. Se poi il danno riguarda una cellula la cui funzione sia quella di
trasmettere informazione genetica alla generazione successiva, qualsiasi
effetto risultante, di qualsiasi tipo e gravità, si esprime nella progènie
della persona esposta».
L’incognita del trizio: mai monitorato prima del
2006. Gli atomi di trizio H3, prodotti durante la fissione all’interno del
reattore, si combinano con l’acqua del sistema di raffreddamento e formano
acqua triziata. Questa era considerata
erroneamente come uno dei prodotti di fissione meno pericolosi, e veniva
rilasciata quasi totalmente nell’ambiente (non potendo essere né filtrata né
depurata come per gli altri radionuclidi). Il trizio rappresentava perciò fra
il 50% e il 100% del materiale radioattivo rilasciato dalle centrali negli
effluenti liquidi. Nei “Rapporti annuali sulla radioattività ambientale” degli
anni 1969 e 1971. Nell’anno 1974 compare, ma la tecnica usata impedisce di
rilevarlo sotto un livello di 1100 becquerel per litro di acqua potabile
prelevata dai pozzi. Eppure già nel 1969 il capo della nordamericana americana
Division of Environmental Radiation indicava che il trizio non è rilevabile con
mezzi convenzionali e che occorre quindi usare un «liquid scintillation
counting». Si sapeva come fare, ma le autorità non l’hanno fatto. Né per
l’acqua dei pozzi, né per il fiume, i pesci, il latte, le verdure o il riso. La
natura, purtroppo, registra tutto anche se gli uomini non vogliono farlo e “la
presenza di trizio nelle acque del Po e dell’alto Adriatico è stata confermata
nel 1978 al convegno intergovernativo sull’inquinamento del Mediterraneo”.
Allora, che altro dire delle ripetute rassicurazioni
che i livelli di contaminazione erano trascurabili? Come per esempio quella,
nel 1978, dell’ing. Donegà, direttore della centrale Fermi, per cui l’acqua
usata per raffreddare il reattore, dopo opportuni trattamenti, «è praticamente
acqua distillata e può essere nuovamente immessa nei fiumi: la sua
radioattività è pari, infatti, a circa un decimo dell’acqua minerale delle
fonti di Lurisia che beviamo comunemente». La menzione del trizio compare nelle relazioni
dell’Arpa su Trino soltanto nel 2006 (usando il dovuto contatore a
scintillazione liquida, il livello di trizio, sia nell’acqua di rete potabile,
proveniente fortunatamente da pozzi a circa 10-15 chilometri ad Ovest di Trino,
che di falda superficiale, si è rivelato sotto il livello di rilevabilità di 4
Bq per litro.) L’ARPA stessa misura la radioattività dell’aria dovuta alla
Fermi... solo a Vercelli, perché “consente di dare in tempo quasi reale
l'allarme in merito a rilasci in atmosfera conseguenti ad incidenti radiologici
in corso”.
Il dottor
Giuseppe Miserotti, già presidente dell’Ordine dei Medici di Piacenza,
ha spiegato come dosi anche piccole di trizio sono assorbite dal nostro corpo,
che è costituito per il 70% da acqua, e raggiungono i tessuti più delicati: gli
occhi, il sangue, il midollo. L’Autorità di Sicurezza Nucleare francese, nel
suo Livre blanc du tritium (2010), evidenzia che «il sistema nervoso centrale
sembra essere un bersaglio particolarmente vulnerabile: la concentrazione di
trizio risulta esservi da 3 a 20 volte più elevata che negli altri
organi».
Trino, oltre al tasso doppio dei tumori per la
fascia di età da 0 a 44 anni, e il 476% per i tumori da 0 a 14 anni, rispetto
all’ASL di Vercelli, rappresenta un caso unico in provincia per la concomitanza
di un forte eccesso di tumori del sistema nervoso (262%) e di patologie
degenerative dello stesso.) Il chimico e biologo Ian Fairlie, consulente per il
Governo Inglese ed il Parlamento Europeo, spiega che il pericolo è maggiore per
i bambini: «I tessuti dei bambini sono
molto più permeabili e le loro cellule si replicano molto più velocemente di
quelle degli adulti. Il loro midollo osseo assorbe le radiazioni e duplica
cellule infette a ritmi serrati». e ancor più per i feti.
La centrale nucleare “Enrico Fermi” di Trino è il
frutto della prima iniziativa industriale avviata in Italia in campo nucleare.
Il 14 ottobre del 1955, all’indomani della Conferenza di Ginevra “Atoms for Peace”, la Edison chiese a
tutti i principali costruttori di reattori un’offerta per la realizzazione
della prima centrale nucleare italiana.
Nel
dicembre 1955 fu costituita la società SELNI con sottoscrizione paritetica del
capitale da parte di elettroproduttori privati (Edison, SADE, Romana,
SELT-Valdarno e SGES) e pubblici (IRI-Finelettrica con SME, SIP, Terni e
Trentina). Esatto: avete letto bene: è proprio la ditta responsabile della strage
del Vajont.
Nel dicembre ‘56 la Edison sottoscriveva con la
Westinghouse una lettera d’intenti per la fornitura di un reattore PWR da 134
Mw subordinata alla conclusione di un accordo Italia-USA per la fornitura di
combustibile nucleare e la concessione di un finanziamento Eximbank.
Nell’aprile 1957 l’iniziativa della Edison era trasferita alla SELNI, il cui
controllo era assunto dalla Edison. Alla fine del ‘57 un raggruppamento
affaristico formato da IMI ed Eximbank sottoscrisse il finanziamento
dell’impresa per 34 milioni di dollari. Per la localizzazione dell’impianto fu
accettato un terreno offerto dal comune di Trino. I lavori per la costruzione
della centrale iniziarono nel ‘61 e si conclusero in meno di tre anni. Il 21
giugno 1964 il reattore raggiunse la prima criticità e a partire dal 22 ottobre
1964 iniziò a immettere elettricità in rete. Nel 1966, per effetto della legge
sulla nazionalizzazione elettrica, la proprietà della centrale passò all’ENEL.
Il reattore fu fermato nel ‘67 a causa di problemi tecnici allo schermo radiale
del nocciolo e fu riavviato nel 1970 dopo gli interventi di riparazione. Una
seconda fermata fu imposta nel 1979 per gli adeguamenti decisi in seguito
all’incidente di Three Mile Island (USA). I lavori tennero fermo il reattore
fino a tutto il 1982. Dopo il riavvio il reattore di Trino continuò ad operare
fino al 1987. Nel luglio 1990 il CIPE dispose la sua chiusura definitiva, dando
mandato all’ENEL di predisporre il piano di smantellamento (decommissioning).
Nel novembre 1999 la proprietà della centrale - così come per le altre tre
centrali nucleari civili italiane - è stata trasferita a SOGIN, che ha il
mandato di procedere alla sistemazione dei materiali radioattivi presenti nel
sito, allo smantellamento della centrale e al recupero e alla valorizzazione
dell’area. Nel 2000 SOGIN ha predisposto e presentato alle competenti autorità
il progetto globale di smantellamento dell'impianto. L’impianto ha operato dal
1973 al 1995 fabbricando combustibili per le centrali nucleari italiane
(ricariche della centrale di Garigliano, prima carica e ricariche per Caorso,
ricariche per Trino) e anche per reattori esteri. I materiali nucleari lavorati
sono stati l’uranio depleto, l’uranio naturale e l’uranio arricchito fino al 5
per cento. Alla fine del 1995 l’ENEA, azionista pressoché esclusivo della FN,
ha deciso di non proseguire ulteriormente le attività di fabbricazione di
combustibili nucleari e di procedere alla disattivazione dell’impianto.
Nel
1996 è stato presentato un piano di disattivazione. A seguito dei rilievi mossi
da varie amministrazioni, il piano è stato revisionato. La nuova edizione è
stata presentata alle amministrazioni alla fine del 2002.
E prendiamo ad esempio, l’impianto EUREX (Enriched
URaniun EXtraction), realizzato nel periodo 1965-1970, aveva come obiettivo il
riprocessamento dei combustibili dei reattori di ricerca (di tipo MTR, Material
Testing Reactors) della Comunità Europea, e a tale scopo ha ricevuto anche un
cospicuo finanziamento dall’EURATOM. A partire dall’ottobre 1970 sono stati
riprocessati 112 elementi MTR contenenti circa 21 kg di uranio ad alto
arricchimento. Dopo due anni di arresto, fra il febbraio 1973 e il giugno 1974
sono stati ritrattati altri 394 elementi MTR. Successivamente a tale data,
l’impianto è stato modificato in vista di campagne sperimentali di
riprocessamento di combustibili da reattori di potenza. In tale ambito,
dall’ottobre 1980 alla fine del 1983 sono stati riprocessati 72 elementi di
combustibile irraggiato di tipo CANDU (CANada Deuterium Uranium) della centrale
canadese di Pickering (Ontario). A partire dal 1984 l’impianto di
riprocessamento non ha più funzionato e l’attività più significativa svolta in
EUREX è stata la solidificazione delle soluzioni di plutonio ottenute dal
riprocessamento degli elementi CANDU, mediante l’impianto UMCP, Unità Manuale
di Conversione del Plutonio (dal giugno 1988 al marzo 1991). È stato trasferito
rispettivamente a Sellafield (Regno Unito) e a Savannah River (Stati Uniti) il
combustibile MAGNOX della centrale di Latina e il combustibile MTR dei reattori
di ricerca, precedentemente immagazzinato nella piscina dell’impianto.
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vercellese
“Il modo migliore per farci conoscere è raccontare il nostro
lavoro – La centrale nucleare Enrico Fermi di Trino – Sogin 2008.
http://www.tecnosophia.org/documenti/Articoli/Sessione/Galli.pdf
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