11.3.20

CORONAVIRUS: SCHEDATURA ELETTRONICA DEI BAMBINI!




di Gianni Lannes


Il grande fratello ti sorveglia sempre più fin dalla scuola, anzi dalla culla, in attesa del vaccino obbligatorio per tutti. Non bastava la schedatura telematica degli adulti e delle famiglie. Con tanto di decreto il governo Conte bis ha confinato la popolazione nelle case e chiuso le scuole. Tanti sembrano felici e contenti per aver perso in un lampo la libertà. Ecco in azione a dissonanza cognitiva su scala sociale, anzi scolastica. Nel belpaese è stata abolita la libertà civile in ragione di un'emergenza sanitaria (ingigantita dall'inettitudine governativa) e certi insegnanti come se nulla fosse pensano ancora con ostinazione ai compiti da casa degli alunni. Il verbo dominante e dilagante non è più imparare, bensì controllare chi si è appena affacciato alla vita con esercizi disarmanti..

Le situazioni di crisi a volte tirano fuori il peggio dalle istituzioni e dagli individui. Grazie alla benedizione ministeriale il pretesto è utile, l'occasione è propizia, il boccone è ghiotto. Didattica a distanza in Italia? No, grazie. Le piattaforme private sia pure sostenute dal governo profilano i minori, ancor più per l'emergenza virale in atto. Vale a dire, si appropriano dei dati sensibili relativi all'identità dei pargoli, anche dei malcapitati ed ignari genitori, inclusi gli insegnanti, spesso analfabeti digitali. In altri termini, prevale il conformismo e la rassegnazione, invece del pensiero critico. L'autorità non ha sempre ragione.


 

La recente legge 71 del 2017 ha previsto degli specifici compiti da parte dell'Autorità Garante per la Privacy in materia di cyberbullismo. La legge prevede misure di prevenzione ed educazione nelle scuole, sia per la vittime che per gli autori. Ma quando il fenomeno investe istituzioni ed autorità, che si fa? L'educazione alla legalità non è un proclama vuoto per qualche sfilata urbana. Perché alcuni dirigenti scolastici non hanno seguito le direttive ministeriali relative alle piattaforme didattiche a distanza, realmente reti di avanguardia educativa, come Indire, Rai, e Treccani?



WeSchool si fa vanto - online - addirittura di lavorare con banche e multinazionali, notoriamente dedite al traffico di armi, nonché alla violazione dei diritti umani; peggio, anche in sinergia con la guerrafondaia NATO. Perché le scuole pubbliche non si sono attrezzate per tempo ed ora espongono sia pure in buona fede o inconsapevolmente, col pretesto dello svolgimento di compiti - i loro alunni minorenni a questo rischio e pericolo? E perché taluni dirigenti scolastici si ostinano a non capire tali insidie? Non è tutto: alcune maestre insistono quotidianamente con pervasivi messaggi WhatsApp indirizzati ad alunni di appena 7-8 anni, invitandoli quotidianamente a visionare video “didattici” su youtube.

Una società senza dialogo, senza confronto dialettico, senza contatto corporeo, è un mero agglomerato, una massa per definizione anonima senza cuore e senz'anima. Ieri mi ha comunicato i suoi seri dubbi la professoressa Luisa Piarulli, docente a Torino in una scuola superiore e all'Università Cattolica di Milano, preziosa pedagogista:

«Una società che faccia delle tecnologie lo stendardo del progresso, non mi piace, la rigetto. Oggi l'uomo ne è al completo servizio, anziché essere il contrario. Trovo che sia una delle maggiori cause dell'isolamento sociale, della solitudine generalizzata, delle svariate forme di disagio umano. Siamo dentro la “disumanizzazione”. In tutta questa brutta storia, indipendentemente dalle cause e dalle responsabilità, questo virus ci sta mettendo di fronte alla povertà culturale che siamo stati capaci di creare. Comunque, a parte queste riflessioni, la a scuola insieme alla salinità è protagonista. Le due aree più deprivate economicamente, più tartassate, oggi sono in primo piano. La didattica a distanza: non siamo preparati, tranne quei docenti appassionati di tecnologie o i giovanissimi (scia dei nativi digitali). Ci chiedono, ci tartassano, esigono. Personalmente uso molto la mail, ma i bambini e i ragazzi sono impauriti, ansiosi e vanno aiutati a ritrovare il loro equilibrio. Dunque è pure necessario il contatto voce, sguardo, parola. Naturalmente le piattaforme digitali stanno lievitando e i “tecnologici” così ambiziosi non aspettavano altro».
 
Tra i numerosi temi emergenti in questa presunta modernità contemporanea, vi è l’interrogativo se gli insegnanti debbano o meno accettare le richieste di amicizie degli allievi su Facebook e/o partecipare a gruppi WhatsApp con scolari e studenti. Come è nello spirito della socialità algocratica, le risposte sono in genere apodittiche: si va dagli integrati di matrice libertariano-paternalista, che confidano nelle proprie indiscutibili doti di regia didattica, agli apocalittici di matrice oratorio-carceraria, che invece affermano la necessità di mantenere le dovute distanze e di non dare “confidenza”. Insomma, un clima da perfetto “Bar della scuola”, tanto è vero che il dibattito non sfocia in nulla di costruttivo.

Facebook, WhatsApp e Google sono piattaforme statunitensi, e quindi hanno da sempre dovuto rispettare il limite previsto dalla legge federale Children's Online Privacy Protection Act  (COPPA): nessuna persona giuridica (ad esclusione degli enti pubblici) può raccogliere dati relativi a minori di 13 anni: sono obbligatori il preavviso di trattamento ai genitori, il loro consenso degli stessi, l’adozione di misure di sicurezza e il divieto di sollecitare dati direttamente non necessari. Insomma, da sempre la larga parte degli scolari di primaria e secondaria di primo grado non avrebbe potuto iscriversi a nessun mediatore informazionale, se non fornendo – presumibilmente con il compiaciuto consenso di qualche adulto – dati personali fasulli. 
Nel 2018, poi, è intervenuto il nuovo Regolamento europeo (GDPR): l’articolo 8 vieta l’offerta diretta di servizi digitali (quindi iscrizione ai social network e ai servizi di messaggistica) ai minori di 16 anni, a meno che non sia raccolto il consenso dell'esercente la potestà genitoriale. Gli Stati nazionale possono abbassare questo limite – ma non scendere al di sotto dei 13 anni – e il legislatore italiano ha definito il limite di 14 anni. Insomma, se proprio lo si vuol fare, anticipare la partecipazione dei minori allo sfruttamento semantico dei prosumer e all’estrazione di valore da parte del capitalismo di piattaforma è assolutamente possibile. Ma va fatto secondo le regole in vigore.

La privacy online dei minori è un problema che è diventato sempre più rilevante, e non solo a causa dei social network. Va tenuto a mente infatti che l’adesione a molti servizi online, social compresi, non produce solo l’iscrizione a questi, ma un vero e proprio contratto mediante cui l’utente acconsente alla profilazione dei propri comportamenti. Tramite questo contratto si dà l’approvazione ad attività di raccolta ed elaborazione dei dati che possono essere usati per fini commerciali, e anche i dati relativi ai minori possono essere venduti proprio come quelli degli adulti. Nel caso dei bambini questo diventa un rischio in quanto il soggetto minore non è consapevole di quanto gli viene richiesto, né può comprendere le complessità connesse alla profilazione e all’accumulo di quantità impressionanti di big data su ogni essere umano sin dalla sua nascita. Ma qual è e quale sarà l’impatto di essi sulle nostre vite?

Un campanello d’allarme è stato recentemente suonato dal Consiglio dei consumatori norvegese, che in un suo rapporto ha puntato l’indice contro la pratica dei dark pattern, ormai diffusa da parte di molte grandi aziende tecnologiche. Si tratta di elementi che, se inseriti nel design di una pagina web, consentono di confondere l’utente e di fargli fare azioni che altrimenti non vorrebbe compiere (come iscriversi o disiscriversi da un servizio-abbonamento-newsletter, acconsentire alla fornitura di dati personali, eccetera). Se già un adulto si può trovare in difficoltà di fronte a situazioni di questo tipo, come può reagire un bimbo?

Nel 2016 uno studio richiesto dalla Commissione Europea nel 2016 ha evidenziato che nella quasi totalità dei casi di giochi online analizzati non erano presenti misure protettive per bambini e adolescenti, come “ad alert” o simili, che consentissero di distinguere tra pubblicità e gioco. Generalmente l’opinione comune punta sempre il dito sulla responsabilità dei genitori di stare attenti e controllare come i loro figli usano la rete. Tuttavia, ampliando leggermente l’orizzonte, sono molti altri i soggetti che rientrano nella rosa degli interessati: dalle istituzioni che devono normare la questione sino alle aziende che producono e sfruttano questi dati.

La salvaguardia e la gestione responsabile dei dati digitalizzati dei minori è un tema su cui si discute ormai da anni a livello internazionale. Negli Stati Uniti, ad esempio, hanno cercato di risolvere normando l’operato delle principali piattaforme attraverso il “COPPA”, ovvero il Children’s Online Privacy Protection Act. Fra i punti chiave della normativa, è previsto che:fatta eccezione per gli enti pubblici, nessuna persona giuridica può raccogliere i dati relativi ai minori di 13 anni (età minima sotto la quale non è possibile iscriversi a un social network); i dati del minore possono essere trattati solo se i genitori danno il loro consenso; devono essere obbligatoriamente adottate misure di sicurezza e non possono essere sollecitati dati che non siano necessari al trattamento.

Nel Vecchio Continente il nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR) entrato in vigore a maggio 2018 ha fissato, con l’articolo 8, il divieto di offerta diretta di servizi digitali ai minori di 16 anni, a meno che non vi sia il consenso dei genitori o di chi ne fa le veci. In altre parole il GDPR introduce una sorta di maggiore età digitale dopo la quale è permesso il consenso al trattamento dei propri dati anche con riferimento a profilazione.

Veronica Barassi, ricercatrice del Dipartimento di Media, Comunicazione e studi culturali della Goldsmiths University di Londra, è l’autrice del report “Home Life data and children’s privacy”, redatto all’interno della strategia adottata dall’Information Commissioner’s Office (ICO), il garante della privacy inglese. L’intera iniziativa fa parte di un progetto di ricerca sociale più ampio, iniziato nel 2016, che si chiama Child I Data I Citizen. Il progetto mira ad analizzare la pluralità di dati che ognuno di noi, sin dalla nascita, produce direttamente o indirettamente sul web. In effetti, Di fatto, come sìargomentato dalla dottoressa Barassi, le nostre vite si trasformano giorno dopo giorno in dati che le aziende hanno a disposizione con facilità sempre maggiore per controllare i nostri comportamenti. Tale ha dimostrato come di fatto, sin dall’infanzia, le persone si trovino inserite all’interno di un processo di “datafication” . La mole di dati che possono essere raccolti su un soggetto già da bambino è impressionante secondo quarto riportato dalla Barassi: app sulla salute, software utilizzati dai dottori, dati sull’educazione (come quelli che vengono raccolti attraverso la piattaforma Google Classroom, impiegata dalle scuole), dati sui social media e anche dati su casa e la famiglia, abitudini di consumo comprese (attraverso l’uso di virtual assistants e altre smart technologies per la domotica). È noto che diverse aziende come Google e Amazon non solo raccolgano dati personali, ma li usino anche per costruire profili digitali che poi vengono venduti.

In Europa la nuova GDPR avrebbe dovuto fare chiarezza nel campo della privacy dei minori, ma lascia diverse questioni aperte. In particolare si fonda prevalentemente sul concetto di trasparenza. Ciò su cui si punta è che le data policy siano trasparenti, e che i genitori siano in grado di dare un consenso informato. Tuttavia questo approccio non tiene conto del fatto che spesso il consenso è obbligatorio per poter usare un servizio, e che “termini e condizioni” vengono accettati perché non si può fare altrimenti. Inoltre, sempre secondo quanto accertato dalla dottoressa Barassi, molti servizi e piattaforme che raccolgono dati sulle famiglie (come quelli sulla demotica), anche se non vengono utilizzati direttamente da un minore, indirettamente danno dei dati anche su di esso. Se raccolgono dai relativi agli acquisti che un genitore fa per il figlio indirettamente il dato acquisito riguarda comunque il minore, così come nel caso di ricerche o azioni ad esempio relative a questioni sanitarie. La GDPR non tiene in considerazione che la vita digitale delle persone spesso è irrinunciabile: non si tratta solo di avere un profilo Facebook, ma di dover far parte del gruppo dei genitori della classe del proprio figlio o del fatto che le informazioni che ha su di noi il medico di famiglia sono conservate in una piattaforma in outsourcing. La GDPR europea resta un passo in avanti importante su cui si dovrebbe continuare a lavorare al fine di trovare nuovi meccanismi che regolino il fenomeno. Se ci troviamo davanti infatti questioni nuove è normale pensare che anche le normative inerenti dovranno rinnovare i propri approcci per poterle gestire.




















Gianni Lannes, IL GRANDE FRATELLO, Draco edzioni, Modena, 2012.

Gianni Lannes, BAMBINI A PERDERE, Lpe, Cosenza, 2016.