13.11.19

L'ILLUSIONE DELLA MORTE E LA DITTATURA DELLE COSE

foto Gilan (2019) ©


di Gianni Lannes


Qual è il senso della vita? Almeno l'arte e la bellezza naturale sono il nutrimento dell'anima, quando prevale il senso dell'io e scema il pensiero del noi. Dunque, attenzione all'ossessione delle cose che sopravvivono agli umani. È difficile sciogliere il nodo segreto che stringe la pulsione di morte all'assoluta volontà di vita. La morte - esorcizzata ed occultata dalla modernità nell'immaginario collettivo - non è il nemico che dall'esterno insidia l'esistenza umana, ma qualcosa che essa stessa produce per contrasto, allorché cancella il proprio limite costitutivo. Si vive, anzi sopravvive, come se mai si dovesse morire, senza apprezzare il presente, accumulando beni materiali, e perdendo anche di vista la bellezza vera dell'amore e dell'amicizia, smarrendo il senso di comunità.

La vertigine della morte è l'esito necessario, ma spesso imprevisto, di una vita svolta dalla coscienza della propria vulnerabilità, integralmente coincidente con se stessa, sottratta alle relazioni con gli altri.

Nella stagione del disamore dilagante, l'edonismo consumistico ha preso il posto delle passioni politiche, in un possessivo culto che trasforma determinati oggetti di consumo in reliquie. Ad esempo: la diffusione illimitata degli smartphone ormai protesi assillante della personalità umana. Comunque, questa moltiplicazione compulsiva degli oggetti, anziché riempire il vuoto di senso che scava e disorienta l'esistenza, lo ha ampliato a dismisura. Infatti, le malinconie contemporanee nascono dall'incapacità di conferire senso all'esperienza. Priva di desiderio, chiusa in se stessa, la vita è inchiodata alla propria insensatezza apparente (imposta dal sistema economico), mentre il corpo diventa un peso morto da trascinare, occultato in viso da una maschera ad uso della scena pubblica. La persona, sottratta al rapporto simbolico con l'alterità, resta schiacciata sui propri confini egoistici, abbarbicandosi ad essi come all'unica salvezza possibile. Si tratta di una sindrome che ha il proprio fulcro nella richiesta ossessiva di protezione sociale. Il muro, il filo spinato, la barriera, insomma la chiusura all'altro diventano l'emblema tragico ed escludente del nostro tempo infelice dell'Occidente, arido di passioni collettive, dove ormai latita il senso di comunità.

È l'ennesimo passaggio di paradigma dalla ricerca illimitata di godimento individuale, all'assunzione del confine come nuovo oggetto di investimento emotivo nell'ambito sociale (e politico). I due stati emotivi sono l'esito rovesciato l'uno dell'altro. A congiungerli è la pulsione di morte, situata al fondo stesso della vita. Una società non si evolve se non coltiva l'accoglienza e la condivisione in favore del bene comune, piuttosto che la gretta chiusura e l'interesse di pochi.

L'illusione che tutto sia governabile - nella vita individuale e collettiva - conduce gli esseri umani alla catastrofe. Solo se essi impareranno a convivere con l'ingovernabile, anzi con l'indecifrabile, a dialogare con l'estraneo che li abita, saranno in grado di governare realmente se stessi.