saccheggio d'Italia - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
di Gianni Lannes
Pochi sanno che l'Italia è una sorta di eldorado
fiscale per i petrolieri, perché esistono meccanismi che riducono a nulla il
rischio d’impresa, ma sempre più un inferno per chi ci sopravvive, a causa dei danni ambientali
e sanitari occultati all’opinione pubblica.
Infatti le prime 20 mila tonnellate di petrolio
prodotte annualmente in terraferma, come le prime 50 mila tonnellate di
petrolio estratte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas in terra e i
primi 80 milioni di metri cubi in mare sono esenti dal pagamento di aliquote
allo Stato.
Ma non è tutto: "Le aliquote (royalties) sul prodotto
estratto sono di gran lunga le più basse al mondo e sulle 59 società operanti
in Italia nel 2010 solo 5 le pagavano (ENI, Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed
ENI/Mediterranea idrocarburi)". Anche se il decreto “Cresci Italia” ha
previsto un incremento delle royalties dal 7 al 10% per il gas e del 4% al 7%
per il petrolio, ma è nulla rispetto alla media degli altri Paesi, in cui tali
cifre vanno dal 20% all’80%.
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Regalìe
- Più precisamente lo Stato gioca al ribasso: con Decreto ministeriale del 22
marzo 2013 (Determinazione delle riduzioni del valore unitario delle aliquote
di prodotto della coltivazione di idrocarburi royalties per l’anno 2012) il
direttore generale (Franco Terlizzese) per le risorse minerarie ed energetiche
del Ministero dello Sviluppo Economico, ha stabilito le seguenti misure: «20,6144
euro per tonnellate di olio prodotto in terraferma; 41,2287 euro per tonnellate
di olio prodotto in mare; 0,000687 euro/kg per ogni 5 km di condotta, con
esclusione dei primi 30 km, e con un massimo di 20,6144 euro/t».
L’elenco dei titoli minerari vigenti al 30 aprile
2013 (idrocarburi e risorse geotermiche) rivela le proporzioni dell’assalto
allo Stivale ed ai suoi mari. Infatti, attualmente, le concessioni di coltivazione
in terraferma ammontano a 120 per
una superficie complessiva di 8.702, 38
chilometri quadrati; mentre nel sottofondo marino si contano 66 concessioni di coltivazioni pari ad territorio
esteso per 8.955, 07 kmq. Inoltre,
in Sicilia, si rilevano altre 14 concessioni pari ad una superficie
di 596,85 kmq. Quanto all’energia
geotermica esistono ben 11 concessioni
di coltivazioni in terraferma (perfino negli esplosivi Campi Flegrei), un
permesso di ricerca sul sottofondo marino (Eurobuilding)
per trivellare il vulcano attivo Marsili
nel Tirreno,, e 44 permessi di ricerca in terraferma. Infine (ramo idrocarburi)
si contano 89 permessi di ricerca in terraferma (su 25.505,37 kmq), esattamente
22 in mare (7.826,79 kmq), a cui si aggiungono i 6 permessi di ricerca in Sicilia.
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L’elenco degli operatori più o meno associati in joint-ventures rivela la totale prevalenza
di multinazionali straniere sotto mentite spoglie (in primis le società riconducibili
a David Rockefeller (tra i fondatori del
Bilderberg Group e della Trilateral Commission), finanziatore dell’Aspen Italia, a cui sono affiliati gran
parte dei politicanti italioti, compreso il presidente della Repubblica Napolitano ed il primo ministro Letta). Precisazione d'obbligo: neanche più l'Eni è italiana, dopo la svendita sancita dai boiardi italioti al servizio di interessi altrui.
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Grazie a leggi permissive (dulcis in fundo: la deregulation del ministro Passera sotto il governo dell’eterodiretto
Monti), le compagnie petrolifere
operanti in Italia - prevalentemente anglo-americane che utilizzano società di
facciata per copertura - pagano alcune tra le più basse “compensazioni
ambientali” o royalties del pianeta. Ad un irrisorio 4% di compensazioni
sull’estrazioni di greggio dal mare pagate all’Italia, si contrappongono un
corposo 80% riscosso dalla Russia, un 60% dall’Alaska, un 45% dal Canada e cosi
via. Dunque, non solo l’Italia viene risarcita in piccolissima parte per i
danni ambientali che subisce a causa delle trivellazioni, noi cittadini siamo
anche costretti a pagare i prezzi del carburante più alti del mondo. La
conclusione è scontata: più si trivella l’Italia ed i suoi mari, più a
rimetterci è proprio la Penisola ed il popolo italiano.
Secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo
economico ci sarebbero nei nostri fondali marini 10,3 milioni di tonnellate di
petrolio. Stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per
sole 7 settimane. Non solo: anche attingendo al petrolio presente nel
sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve
certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi.
Questi dati dimostrano l’assoluta insensatezza del
rilancio delle attività estrattive previsto dalla Strategia energetica
nazionale prospettata dal ministro Passera e della spinta verso nuove
trivellazioni volte a creare 15 miliardi di euro di investimento e 25mila nuovi
posti di lavoro. Il settore è destinato a esaurirsi in pochi anni, come
sostiene, per altro, lo stesso ministero dello Sviluppo economico nel Rapporto
annuale 2012 della sua Direzione generale per le risorse minerarie ed
energetiche: «Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale
media degli ultimi cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in
7,2 anni per il gas e 14 per l’olio».
Continuare a puntare sull’energia fossile, oltre a
rappresentare un rischio per l’ambiente e la salute dei cittadini, è un
investimento miope e anacronistico. Lo sviluppo economico e l’uscita dalla
crisi passa per una strada diversa fondata sullo sviluppo rigoroso delle
rinnovabili e di serie politiche di efficienza in tutti i settori, a partire da
quello dei trasporti. Ma più di tutto, occorre puntare sull risanamento reale territoriale. Sono numeri dieci volte superiori a quelli ottenuti grazie alle
nuove trivellazioni.
Mare minacciato - L'ultimo rapporto dell'Ispra (anno 2011) ha un titolo emblematico: "Sversamenti di prodotti petroliferi...".
Alle 9 piattaforme di estrazione
petrolifera già attive si potrebbero aggiungere almeno altre 70 trivelle,
grazie ai colpi di spugna normativi dell’ultimo anno, a partire dalla recente
legge Sviluppo, che riapre i procedimenti autorizzativi di prospezione, ricerca
e trivellazione in mare bloccati dalla norma approvata nell’estate 2010 dopo il
tragico incidente alla piattaforma della BP nel Golfo del Messico.
Ad oggi, le 9 piattaforme petrolifere attive
nel nostro Paese sono operative sulla
base di concessioni che riguardano 1.786 kmq di mare situate principalmente in
Adriatico, a largo della costa abruzzese, marchigiana, di fronte a quella
brindisina e nel Canale di Sicilia. A queste aree marine interessate dalle
trivelle se ne potrebbero aggiungere altre: attualmente le richieste e i
permessi per la ricerca di petrolio in mare riguardano soprattutto l’Adriatico
centro meridionale, il Canale di Sicilia e il mar Ionio (quest’ultimo è tornato
all’attenzione delle compagnie petrolifere dopo che nel 2011 una norma ad hoc
ha riaperto la strada alle trivelle anche nel golfo di Taranto) e il golfo di
Oristano in Sardegna.
Attualmente, 10.266 kmq di mare italiano sono
oggetto di 19 permessi di ricerca petrolifera già rilasciati; 17.644 kmq di
mare minacciati da 41 richieste di ricerca petrolifera non ancora rilasciate ma
in attesa di valutazione e autorizzazione da parte del Ministero dello Sviluppo
Economico.
In definitiva, tra aree già trivellate e quelle che a breve
rischiano la stessa sorte, si tratta di circa 29.700 kmq di mare, una
superficie più grande di quella della regione Sardegna.
Sui mari italiani gravano, inoltre, 7 richieste di
estrazione di petrolio dove le fasi di ricerca hanno portato ad un esito
positivo (3 nel canale di Sicilia, 2 davanti alle coste abruzzesi, 1 di fronte
alle Marche e 1 nel mar Ionio) e 3 istanze di prospezione (si tratta della
prima fase dell’iter autorizzativo, seguita da quella relativa alla ricerca di
petrolio ed poi da quella che porta alla sua estrazione) che riguardano
sostanzialmente tutto l’Adriatico da Ravenna al Salento, che rischiano di
allargare di altri 45mila kmq l’area del mare italiano battuta dalle navi delle
compagnie in cerca di petrolio.
Secondo i dati istituzionali «l’Italia detiene il primato
di petrolio versato in mare». Prima per acque inquinate da petrolio. Suona così
il preoccupante record tricolore, in riferimento alla vicenda di Otranto, dove
una petroliera ha ripulito i serbatoi scaricando in mare una quantità di
greggio giunta sulla costa sotto forma di chiazze e catrame. Negli ultimi 25
anni sono 162.200 le tonnellate disperse nelle acque territoriali italiane,
segue a grande distanza la Turchia con quasi 50.000 tonnellate e il Libano con
29.000.
Il primato del greggio versato si riferisce ai principali incidenti
succedutisi dal 1985 al 2010 registrati dal Rempec, Centro sulla prevenzione e
la gestione dell'emergenza in caso di inquinamento marino che opera nell'ambito
della Convenzione di Barcellona: in questo lasso di tempo si sono verificati
nel Mediterraneo ben 27 incidenti (noti), per uno sversamento complessivo di 270 mila
tonnellate di idrocarburi.
Gargano (anno 2009) - capodoglio - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
Soluzioni - E’ evidente che l’autosufficienza energetica
italiana passa attraverso investimenti in energie rinnovabili che valorizzino
il territorio e le sue risorse naturali, e non attraverso l’aumento
indiscriminato dello sfruttamento ambientale causato dalle trivellazioni e dalle speculazioni in salsa verdastra di eolico e fotovoltaico industriale.
Le
trivellazioni contribuiscono esclusivamente ad arricchire avide compagnie
petrolifere e a degradare ulteriormente il nostro inestimabile patrimonio
naturale.
Mare Adriatico - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
E’ pura speculazione, niente più, a fronte dell’inquinamento di aria,
acqua e suoli. Date un’occhiate all’elenco ufficiale degli esplosivi ammessi dal
ministero competente, oppure, alle sostanze radioattive utilizzate per le perforazioni
marine. E se non vi basta, provate a documentarvi sugli effetti mortali dei
cannoni air gun sulla vita acquatica,
in particolare dei cetacei.
La sicurezza energetica di un Paese dipende sempre
di più dalla capacità di fare a meno dei carburanti fossili. L’Italia dispone più di altri di una risorsa naturale la cui
importanza strategica dal punto di vista energetico, è destinata ad aumentare
notevolmente in futuro: il sole.
riferimenti:
http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/buig/57-4/57-4.pdf
http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/buig/57-3/57-3.pdf
http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/buig/supplemento57-2/supplemento57-2.pdf
http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/norme/dd220413.htm
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2012/01/haven-la-petroliera-che-inquina-dopo-21.html
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2012/01/haven-la-petroliera-che-inquina-dopo-21.html
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