GIACOMO MATTEOTTI |
di Gianni Lannes
E’ trascorso quasi un secolo, ma sembra ieri
pomeriggio. C’è un filo d’oro nero che accomuna l’omicidio di Matteotti a quello di Enrico Mattei (27 ottobre 1962).
Esatto: il petrolio. Mai sentito
parlare delle tangenti intascate nel secolo scorso dai vertici del casato Savoia e da Arnaldo Mussolini per stipulare una convenzione particolare con la
società petrolifera nordamericana Sinclair
Oil? Sullo sfondo si profilava una
battaglia tra la statunitense Standard Oil e l’Anglo-Persian.
Il leader socialista aveva acquisito dalle sue fonti inglesi la scottante documentazione, e l’11 giugno di 91 anni fa avrebbe denunciato il caso in Parlamento. Un’informativa di Polizia del 14 giugno 1924 conferma che è «sulla bocca di tutti le constatazioni che l’onorevole Matteotti possedesse documenti su cui avrebbe parlato alla Camera e che si riferivano a prove contro il Finzi sugli affari compiuti per i petroli, per le case da gioco, e altro».
Il leader socialista aveva acquisito dalle sue fonti inglesi la scottante documentazione, e l’11 giugno di 91 anni fa avrebbe denunciato il caso in Parlamento. Un’informativa di Polizia del 14 giugno 1924 conferma che è «sulla bocca di tutti le constatazioni che l’onorevole Matteotti possedesse documenti su cui avrebbe parlato alla Camera e che si riferivano a prove contro il Finzi sugli affari compiuti per i petroli, per le case da gioco, e altro».
Ieri come oggi. Già allora, nuovo ordine mondiale. Il governo italiano,
infatti, poche settimane prima del delitto, aveva concesso alla società
petrolifera americana Sinclair Oil (sostenuta economicamente dalla banca di
John Davison Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil)
l'esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi
presenti nel territorio italiano, in Emilia e in Sicilia (Regio decreto legge
numero 677 del 4 maggio 1924). Le richieste della Sinclair Oil per poter
effettuare scavi in diversi territori dello Stivale, prevedevano condizioni
estremamente vantaggiose per la Sinclair stessa (come la durata novantennale
delle concessioni e l'esenzione da imposte). Da parte del governo tricolore
vennero scelti come mediatori per trattare l'accordo un gruppo di politicanti,
imprenditori e diplomatici (tra cui i ministri dell'economia nazionale Orso
Mario Corbino e dei lavori pubblici Gabriello Carnazza) strettamente collegati
tra di loro da imprese commerciali (attive in Sicilia), conflitti di interesse
e legami con diversi gruppi finanziari ed aziendali nordamericani (tra cui Morgan,
uno dei finanziatori della Sinclair Oil). I responsabili italiani, seppur con
pareri leggermente diversi e nonostante le condizioni palesemente vantaggiose
per la Sinclair, appoggiarono tutti l'idea dell’accordo. La possibile presenza
della Sinclair Oil sul mercato italiano destò la preoccupazione degli inglesi
della Anglo-Iranian Oil Company (controllata dal governo britannico), anche
loro interessati allo sfruttamento di possibili giacimenti.
Al momento della cattura a Dongo, Mussolini aveva
con sé le carte rubate a Matteotti che inchiodavano soprattutto i Savoia:
una sorta di assicurazione sulla vita che non gli valse a nulla. Fu
probabilmente eliminato perché si temeva che potesse parlare, e vuotare il
sacco.
Per quasi un secolo le prove di questo delitto su
commissione sono state occultate negli archivi nazionali di Kew Gardens di
Londra, a seguito della censura imposta da Churchill (estimatore del duce).
Dalle carte emergono i rapporti d’affari tra Savoia, fascismo e Windsor.
Allora, correva l’anno 1924. Il fascismo è al potere da più di un anno. Benito Mussolini al soldo dei servizi segreti inglesi (l’MI5) dal 1919, guida un esecutivo di coalizione costituito da fascisti, liberali, cattolici di destra, nazionalisti, democratico-socialisti e militari.
Il 6 aprile si svolgono le elezioni politiche con il
nuovo sistema maggioritario (legge Acerbo) in un clima condizionato da violenze
e intimidazioni sistematiche, repressione poliziesca e frodi elettorali. I fascisti
ottengono il 64,9 per cento dei voti (pari a 375 deputati su 560), contro il
35,1 delle opposizioni.
Giacomo Matteotti giunge a Londra il 22 aprile e vi
rimane fino al 26. E’ una visita clandestina, viaggia senza passaporto.
Incontra esponenti del partito laburista e dell’Indipendent Labour Party, Felix
Adler, segretario dell’Internazionale, Walter Citrine dei sindacati britannici,
e il corrispondente diplomatico del Daily Herald. A tutti ribadisce che la democrazia italiana è
in grave pericolo. I laburisti sono al governo per la prima volta.
L’arrivo di Matteotti è stato preceduto da alcuni
articoli sulla stampa britannica che hanno irritato Roma. Già dai primi mesi
del ’24 il New Leader ha pubblicato una serie di articoli non firmati sotto la
dicitura “Somewhere in Italy” (da
qualche parte in Italia) basati su informazioni fornite da Matteotti. Sul
numero della stessa rivista datata 28 marzo c’è un sunto aggiornato del libro
di Matteotti Un anno di dominazione fascista. Vi si legge tra l’altro: «Molte
persone sono state uccise… non s’è mai visto un governo che abbia abusato così
tanto del potere». Il leader socialista il pericolo che corre, già tempo prima
avevano tentato di aggredirlo ma era stato salvato dalla forza erculea e dal
coraggio del socialista pugliese Giuseppe Di Vagno (assassinato da sicari
fascisti). Dirà poi al Daily Herald, che gli chiede se non ha paura di
rientrare in Italia: «La mia vita è sempre in pericolo, questo è quello che
voglio che capiate».
Rientrato in Italia Matteotti continua a scrivere
per la stampa britannica. Tra l’altro invia una lettera a The Statist, che
verrà pubblicata nel numero del 7 giugno, nella quale demolisce rigorosamente
la situazione rosea che era stata dipinta dal ministro delle finanze De Stefani,
due mesi prima. Il contenuto di quella pubblicazione di Matteotti viene
segnalato a Palazzo Chigi, tradotto con grande celerità e passato al Corriere
Italiano. Il direttore è quel Filippo Filippelli, agente della Sinclair, la cui
auto ha praticamente già il motore acceso per il rapimento di Matteotti.
Il 30 maggio alla riapertura della Camera, il
deputato socialista riformista e antifascista intransigente, denuncia le
violenze fasciste e chiede l’annullamento delle consultazioni elettorali. Il
suo intervento è ripetutamente interrotto dagli insulti della maggioranza fascista.
10 giugno 1924. A Roma, sul Lungotevere Arnaldo da
Brescia, intorno alle ore 16,30, Matteotti è aggredito e trascinato a forza su
un’automobile. Gli autori del sequestro sono, come si scoprirà in seguito,
stretti collaboratori del ministero degli Interni: Amerigo Dumini (squadrista
toscano) Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria,
provenienti da associazioni di arditi di Milano. Partecipano anche Filipo
Panzeri, Aldo Putato e Otto Thierschald. Il gruppo sfrutta la collaborazione
della direzione generale di Pubblica Sicurezza.
Gli esecutori materiali dell’omicidio di Matteotti
vengono individuati ed arrestati nei primi giorni dopo il delitto, grazie all’identificazione
del numero di targa della vettura (Lancia Lambda) utilizzata per il rapimento e l’assassinio.
Anche i mandanti, nel loro livello intermedio (Rossi e Marinelli) sono
rapidamente chiamati in causa, ed arrestati a loro volta. Come mai allora, le
condanne sono solo tre, e le pene detentive concretamente scontate
assolutamente irrisorie?
Per tentare una risposta occorre analizzare la lunga
e complessa strategia messa in atto dal regime. In primo luogo, la gestione dei
primi atti di indagine: il capo della polizia De Bono, pur non essendo legittimato
a svolgere attività di polizia giudiziaria, cerca di gestire in proprio l’arresto
di Dumini, forse preoccupato di acquisire i documenti che sono stati sottratti
a Matteotti, ovvero le prove del coinvolgimento del regime (Savoia e vertici
del fascismo) nello scandalo petrolifero. Si tratta del vero movente del
delitto. Matteotti sarebbe riuscito ad archiviare il fascismo.
Il 14 giugno Antonio Gramsci propone al comitato delle opposizioni lo sciopero generale, ma la proposta è rifiutata.
Vittorio Emanuele III invischiato nell’affaire petrolifero dalla zampe alla capoccia, rifiuta, non a caso, di sciogliere l’esecutivo e di indire nuove elezioni. L’8 luglio vengono applicate restrizioni alla libertà di stampa e sono conferiti ampi poteri di censura alle prefetture.
In particolare, il ritrovamento della giacca
insanguinata (12 agosto) e del corpo di Matteotti in località Quartarella nei
pressi della via Flaminia (16 agosto) sembrano costituire un macabro copione,
abilmente gestito dalla Questura di Roma, in un momento ideale per evitare
qualsiasi reazione politica in Parlamento.
La regia è da professionisti del crimine di Stato.
Si ritrova la giacca di Matteotti, ma non la camicia (che avrebbe contribuito a
provare l’uccisione con un unico colpo al cuore, impedendo qualsiasi strategia
difensiva mirata a sostenere la preterintenzionalità della morte).E nelle famigerate valigie di Dumini, ovviamente,
dei documenti neanche l’ombra.
Un altro livello di controllo della situazione, riguarda i tentativi di limitare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati che conducono le indagini. Mauro Del Giudice, originario di Rodi Garganico (dove era nato il 20 maggio 1857), è un magistrato giudicante, presiede la IV sezione della Corte d’Appello, ed è quindi anche per indole e tempra del tutto estraneo a quei rapporti di dipendenza tra magistratura inquirente e Ministero di Grazia e Giustizia che inquinano la Procura generale di Roma.
Si tenta, pertanto, in un primo momento, di convincerlo a rimettere gli atti al Senato, dichiarando la propria incompetenza. L'integerrimo giudice garganico rifiuta, ma a seguito della denuncia di Donati contro De Bono, vi è comunque l’intervento dell’Alta Corte di giustizia del Senato, che causa una sospensione di alcuni mesi delle indagini. Del Giudice si rifiuta di contestare agli imputati l’omicidio preterintenzionale, nonostante la promessa di venire ricambiato con una promozione a presidente di una sezione di Corte di Cassazione. Egli viene così “promosso” a procuratore generale presso la Corte d’Appello di Catania, con l’intimazione, proveniente dal nuovo ministro della Giustizia Alfredo Rocco, di prendere servizio entro cinque giorni. Sorte analoga tocca al collega Tancredi. Quella coerenza fu pagata a caro prezzo da Del Giudice come ha testimoniato il giurista Alberto Scabelloni: «Da quel momento la sua carriera fu troncata e contro di lui cominciò il periodo delle persecuzioni, durato fino al crollo del fascismo».
dattiloscritto originale (biblioteca comunale di Rodi Garganico) |
dattiloscritto originale (biblioteca comunale di Rodi Garganico) |
dattiloscritto originale (biblioteca comunale di Rodi Garganico) |
Questo magistrato il 9 febbraio 1947 termina di scrivere la Cronistoria del processo Matteotti: il libro viene pubblicato nel 1954 - in pochi e rari esemplari (oggi introvabili) - dall’editore Lomonaco di Palermo.
Ai due nuovi magistrati applicati dal regime al caso (uno dei quali cognato di Farinacci, lo squadrista che si era comprato i titoli di studio) sospetta di applicare l’amnistia, che nel frattempo (31 luglio 1925) il governo ha provveduto a emanare. A ben vedere il decreto prevede l’impunità per tutti i delitti politici, a esclusione dell’omicidio. Ma è sufficiente ritenere che l’ordine ricevuto dagli esecutori del delitto fosse solamente quello di rapire Matteotti, e non anche ucciderlo, per contestare ai mandanti il delitto di sequestro arbitrario di persona, coperto dall’amnistia, data la motivazione politica.
dattiloscritto originale (biblioteca comunale di Rodi Garganico) |
dattiloscritto originale (biblioteca comunale di Rodi Garganico) |
dattiloscritto originale (biblioteca comunale di Rodi Garganico) |
Per gli esecutori materiali dell’omicidio il grottesco
giudizio di Chieti (la più vile e torbida pagina della magistratura italiana) opera
una vera e propria semplificazione algebrica: contro le risultanze istruttorie
acquisite in precedenza da Del Giudice e Tancredi, che attestano un unico colpo
di coltello inferto al cuore, viene contesto l’omicidio preterintenzionale.
A scanso di equivoci, il processo viene trasferito per legittima suspicione in una sede diversa da quella naturale (e in questo caso facilmente controllabile), instaurando una prassi tristemente seguita anche in epoca repubblicana, da Piazza Fontana giudicata a Catanzaro, sino ai giorni nostri.
A scanso di equivoci, il processo viene trasferito per legittima suspicione in una sede diversa da quella naturale (e in questo caso facilmente controllabile), instaurando una prassi tristemente seguita anche in epoca repubblicana, da Piazza Fontana giudicata a Catanzaro, sino ai giorni nostri.
Il 3 gennaio 1925 in un discorso alla Camera Mussolini assume la «responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto».
Il processo finale per il delitto del 1924 viene celebrato
a Roma nel 1947, ma è lacunoso per l’assenza dei mandanti e la rinunzia di
testimoni basilari. Dumini che aveva sempre ricattato Mussolini ed era stato
foraggiato a più non posso dallo Stato tricolore, viene condannato all’ergastolo (pena poi commutata
in 30 anni di reclusione), resterà in carcere sino al provvedimento di grazia
del 1953. Dumini morirà il 25 dicembre 1967.
16 agosto 1924. Il cadavere di Matteotti è quasi completamente decomposto e il riconoscimento avviene tramite perizia odontoiatrica. Gli esami autoptici accertano che Matteotti ha opposto resistenza ed è morto per una coltellata inferta all’altezza del cuore.
Il patriota e deputato socialista Giacomo Matteotti aveva solo 39 anni… moglie e figli piccoli.
il neofascismo tenta di cancellare la la memoria di Matteotti:
http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/35000/33642.xml?key=lannes&first=31&orderby=1
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