2.3.24

C'ERA UNA VOLTA ERANOVA!

 



di Gianni Lannes

“Immagina che una mattina ti svegli e il tuo paese non c'è più”: è l'incipit dello straordinario romanzo Un paese felice di Carmine Abate. Lo scrittore calabrese ha attinto da una storia incredibile, ignota ai più e dimenticata da tanti. Una cattedrale nel deserto che ha spazzato via umanità, natura e agricoltura. Eranova una volta sorgeva in riva al mare.


 


 

Quasi mezzo secolo fa l'allora ministro del Bilancio e programmazione economica Giulio Andreotti (prescritto per mafia dalla Cassazione) con l'incarico di ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, a Gioia Tauro promette 10.500 posti di lavoro. Il porto di Gioia Tauro spunta da una tragedia italiana, vale a dire dal fallimento nella costruzione del quinto centro siderurgico nazionale. Tutto imizia con l’invettiva “boia chi molla” dei fascisti a Reggio Calabria. La costruzione della grande fabbrica viene presentata come una misura compensativa rispetto alla scelta di Catanzaro come capoluogo della Regione. Chi rammenta oggi il cosiddetto “pacchetto Colombo”? Il giorno 25 aprile 1975 Andreotti, pone la prima pietra di una fabbrica fantasma. In compenso è l'aaffare del secolo per i mammasantissima, proprietari per gran parte di quei 300 ettari di terreni nella Piana, che lo Stato espropria a valori stratosferici. L'iniziativa comporta la distruzione del mirabile paese di Eranova.


 

Al servizio dell'impianto siderurgico mai sorto si costruiscono cinque chilometri di banchine portuali che annientano un meraviglioso litorale marino. Poi non succede più nulla. Tutto giace nell’abbandono più totale e desolante: sino al 1993 non attracca neanche una nave. Sin dall’inizio delle attività, il porto viene mantenuto sotto scacco dalle cosche mafiose Piromalli e Molè.

Dunque, tutto inizia all’indomani della rivolta di Reggio Calabria, nell’estate del 1970. Il governo di centrosinistra presieduto da Emilio Colombo vara un pacchetto di misure per il sostegno all’industria in Calabria e Sicilia: in tutto si tratta di 1300 miliardi di lire. Reggio Calabria, la città alla quale è stato sottratto il titolo di capoluogo di regione, è destinata ad essere ricompensata con la nascita di un polo industriale. Il primo a incassare un mare di soldi pubblici è l’ingegnere Angelo Rovelli detto Nino, presidente del gruppo chimico Sir. Rovelli acquista dai giapponesi un brevetto per ricavare bio-proteine dal petrolio. Avrebbe dovuto consentire all’economia nazionale di sopperire alla scarsità di soia, bene che allora importavamo dagli Usa. Solo che il processo basato sulla biosintesi, è insicuro, considerato cancerogeno. Eppure, Rovelli costruisce la sua fabbrica a Saline, sulla punta ionica dello stivale. L’altissima ciminiera in mattoni giace ancora lì, mai utilizzata. Nel 1974 la Liquichimica inaugura e chiude i battenti nel giro di due mesi e i settecento lavoratori che avrebbe dovuto impiegare finiscono in cassa integrazione perpetua.

Nel 1975 appunto il ministro del bilancio con delega agli interventi straordinari nel Mezzogiorno è Giulio Andreotti, lo affianca come sottosegretario un certo Salvo Lima. Andreotti arriva nella piana di Gioia Tauro il 25 aprile per posare la prima pietra del nuovo stabilimento siderurgico, per il quale si bandisce una prima gara d’appalto di cento miliardi di lire. «Comprendo la sfiducia dei calabresi perché alle prime pietre spesso non sono seguite le seconde», dice Andreotti. Nel suo discorso, il ministro smemorato non menziona affatto la criminalità organizzata e al rinfresco che segue la cerimonia vengono avvistati anche esponenti della famiglia ‘ndranghetista dei Piromalli. Quattro anni prima, nel pieno dei moti di Reggio, proprio a Gioia Tauro la dinamite fa deragliare il Treno del Sole, il direttissimo da Palermo a Torino. Muoiono 6 persone ed altre 66 restano ferite. Molte inchieste hanno ipotizzato che quell’attentato fosse parte della «strategia della tensione» criminale che intreccia ‘ndrangheta e terrorismo neofascista. A dispetto della battuta di Andreotti, la seconda pietra dell’acciaieria di Gioia Tauro non viene mai deposta. In compenso proseguono i lavori per la costruzione del porto propedeutico alla grande fabbrica. Per fargli spazio si devono scavare 12 chilometri doi territorio nell’entroterra, sbancare trecento ettari di ulivi e agrumeti per costruire 140 ettari di strade, ma soprattutto annientare Eranova. Alla fine dei giochi, il miraggio della fabbrica di acciaio a Gioia Tauro è sfociato nel traffico di cocaina: la merce globale più redditizia nella storia del capitalismo. La Commissione parlamentare antimafia - nel febbraio del 2008 - ha concluso che la ‘ndrangheta «controlla o influenza gran parte dell’attività economica interna al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale».

Riferimenti:

https://www.youtube.com/watch?v=3-k15-PSRLE

https://www.youtube.com/watch?v=2iqXBtnuAKs

https://patrimonio.archivio.senato.it/inventario/scheda/giacomo-mancini/IT-AFS-043-001133/1979-gioia-tauro-5-centro-siderurgico-e-porto-gioia-tauro-stampa-e-documenti#lg=1&slide=26




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