di Gianni Lannes
Una notizia che non avrei mai voluto dare perché fa sgorgare lacrime amare. Il calcio italiano piange oggi una delle sue leggende, Gigi Riva. Non è stato solo un giocatore, forse il più grande italiano di sempre, ma è stato un autentico simbolo. E' stato Giggirriva come lo chiamavano in Sardegna, il più trasversale degli eroi del nostro calcio, adorato a Cagliari come in tutta Italia negli anni '60 e '70. Io l'ho visto giocare dal vivo quando ero un bambino, in un'infanzia particolare da orfano. "Non ho avuto un'infanzia facile, dimenticavo tutto soltanto quando giocavo a pallone".
Non dimenticherò mai quel giorno tra gli sfollati in Abruzzo, dopo la strage del 6 aprile 2009. Il 12 novembre
2009 Gigi Riva, insieme a tutta la nazionale, si strinse agli aquilani
in un solidale abbraccio. E dopo l'ho rivisto in un bar a Cabras appena due anni fa, radioso in una magnifica foto. Poteva essere mio padre (mai avuto), con la saggezza delle 80 primavere sfiorate, la sua adamantina gentilezza e la schietta nobiltà d'animo.
Gianni Brera l’aveva soprannominato Rombo di Tuono e non vi è definizione più calzante per raccontare il suo modo di giocare, l’attesa che precedeva un suo tiro, sempre di sinistro, il suo piede magico. Era un combattente nato, come non se ne vedono più sui campi di oggi, il più grande attaccante della sua generazione, quello dal repertorio tecnico e atletico più fulgido, il più dirompente, il più efficace in area di rigore. Decise tuttavia di ritirarsi ancora giovane, a poco più di 31 anni, penalizzato dai gravi infortuni dopo 156 gol in Serie A ed esserne stato tre volte capocannoniere (1967, 1969 e 1970). 35 invece le reti in Nazionale su 42 partite dove è ancora oggi il più grande marcatore della storia con la maglia azzurra: protagonista assoluto di una partita epocale, quell’Italia-Germania 4-3 ai Mondiali di Messico ’70.
Un campione, un uomo d'altri tempi, umile, semplice e buono, l'indimenticabile numero undici del calcio italiano che si concesse il lusso più grande, quello di poter scegliere col cuore, rifiutando i soldi e il fascino della maglia bianconera. Scelse Cagliari e la Sardegna, quella che definì ''la mia terra'' senza pensare ai milioni di lire o alla gloria. Scelse di diventare un modello, un riferimento, una bandiera per un intero popolo. Una decisione di cui non si pentì mai come lui stesso ha sempre ricordato: ''Avrei guadagnato il triplo. Ma la Sardegna mi aveva fatto uomo. Era la mia terra, ero arrivato dall’età di 18 anni. Volevo lo scudetto per la mia terra e ce l’abbiamo fatta. Noi banditi e pastori''.
Con Gigi Riva se ne va l’ultimo dei ribelli, un irregolare per sottrazione, uno che non ostenta e non millanta, uno che quando ha potuto ha sempre tolto: retorica epica poesia. «Ma no, niente: ho visto il pallone arrivare, l’ho colpito, mi è andata bene». Selvaggio e sentimentale, lascia potenza e bellezza. E una rabbia, mio Dio, «una rabbia che è la rabbia che fanno gli amici», come diceva di lui Pierpaolo Pasolini. «Parlo della rabbia dovuta alla sua rinuncia, alla sua fuga, alla sua assenza». Ma non furono né rinuncia né fuga, furono scelta e ostinazione. Gigi Riva più sardo dei sardi, Gigi Riva e il gran rifiuto a Gianni Agnelli, Gigi Riva e quello scudetto vinto «per noi, banditi e pastori».
In molti hanno pensato che sarebbe morto giovane. Di suo non teneva nulla, conservava tutto la Fausta, amata sorella, giornali ritagli premi ricordi. Riva aveva in garage soltanto due scatoloni: uno per Lorenzo Bandini, il pilota morto tra fiamme e lamiere a Montecarlo, l’altro per Luigi Tenco. Anche il suo sembrava un destino segnato da eroe tragico. E invece ha vissuto. Ci ha mostrato come da eroe si diventa mito: scomparendo, in un mondo in cui ci si scanna per apparire, in assenza, stavolta sì, come Mina come i grandi. Parlando poco quasi niente, per lo più camminando, sinché ha potuto, nel centro di Cagliari, con quel suo passo lungo ampio deciso, la sigaretta in bocca sempre, un sorriso e un saluto a chi lo chiedeva.
Per l’Italia è stato l’Angelo Azzurro, il più grande bomber della storia della Nazionale, 35 gol in 42 partite, roba da pazzi. Un europeo in bacheca, una finale mondiale persa contro un Brasile stellare, pochi giorni dopo la partita del secolo con la Germania, e due gambe rotte perché la gamba non si toglie mai, va bene?
Per i sardi è stato padre figlio fratello, amico fragile. Gigi si è mostrato l’ultima volta l’anno scorso per la proiezione del film che gli ha dedicato Riccardo Milani, e si è mostrato fragile, lui che è stato un’ira di Dio. Ha parlato di depressione, la sua, che lo ha accompagnato tutta la vita, vita da orfano, un padre trapassato da una scheggia di ferro in fonderia, una madre morta prima che Riva diventasse Riva. L’infanzia il collegio gli incubi le fughe. Un buco nell’anima e il rifugio in una Sardegna rinnegata. Non ci voleva venire, non ci voleva restare, non se n’è andato più. Erano gli anni ’60. Riva ha scelto la Sardegna: l'ha amata e l'ha difesa sempre. È stato di parola, spesso contro i suoi stessi interessi, come certi selvaggi come certi ribelli, come i pazzi. «Se non avessi fatto il calciatore? Avrei fatto il contrabbandiere».
Ciao Gigi!
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