26.7.15

CAVALLI FENICI IN SARDEGNA


di Gianni Lannes

 
Cavalli selvaggi dagli occhi a mandorla a cui i politicanti locali vogliono applicare il microchip e lucrarci sopra. 

Con una cantilena che alternava toni e cadenze diverse a seconda dei comandi da impartire, "su pastulladeri" ancora nei primi anni del dopoguerra, sfidava il caldo e la polvere dell'estate per guidare e incitare al lavoro, sulle aie della Marmilla e del Campidano, piccoli cavalli dagli occhi a mandorla. Se ne stava dritto, al centro di spiazzi ricoperti di cumuli di grano appena falciato, per far funzionare una trebbiatrice viva e ansimante, fatta di muscoli, di zoccoli, di nitriti e di sudore. "Is quaddeddus", i cavallini sardi dal manto baio o morello e dalla lunga criniera, sulla cui origine si discute ancora, erano disposti in fila e legati assieme, a catena, con una lunga fune, e dovevano girare e trottare tutto il giorno, intorno a uno stesso palo che faceva da perno, per calpestare di continuo spessi tappeti di spighe. 



Un lavoro massacrante, ripagato quasi sempre con qualche pugno di fieno e un sorso d'acqua, che si ripeteva ogni ano dopo la mietitura e si concludeva a fine stagione, quando stalloni e puledre venivano restituiti alla vita libera e selvaggia. Quei cavallini caratteristici per la ridotta statura, per la testa robusta e il collo corto, per l'aspetto selvatico, per il folto ciuffo di crine sulla fronte, per la lunga coda attaccata bassa, per le zampe nervose e sottili, per gli zoccoli duri e resistenti, erano diffusi un tempo in diverse zone della Sardegna, ma oggi sopravvivono soltanto sulla Giara di Gesturi, un altopiano di basalto, di sughere e di paulis, stagni imbriferi, che si erge, come un'isola nell’isola, su un mare di morbide colline mioceniche tra i rilievi del monte Arci, scrigno dell'ossidiana, l'oro nero della preistoria, e il Sarcidano. 

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