di Gianni Lannes
Andarsene, fuggire,
disertare è a momenti una tentazione irresistibile. Per l’usura di un rapporto,
per il dolore di una sconfitta, per l’intollerabilità di una dittatura. Non
importa, dove, ma andarsene per sempre. Dall’Iliade in poi voltare le spalle, è
il contrario dell’aretè, del valore e
della virtù. Dall’alto delle Termopili Leonida campeggia sui gesti della nostra
vita. Insomma, la defezione non ha mai avuto una legittimità etica. Anzi,
quando questa tentazione passeggera, da impulso individuale si fa pulsione
collettiva, l’immaginario occidentale non può che esorcizzarla. Però, si
capisce, in certi casi, che l’uscita non è un abbandono della lotta, ma a sua
volta, è uno spostamento della battaglia. L’esodo, quindi, assume un nuovo
significato, non è più una resa incondizionata, non è più abbandonare il conflitto,
bensì è un nuovo modo di combattere il potere.
Ci si separa da un
luogo o da un ordinamento e si parte per raggiungerne altri, per arrivare in un
altrove immaginato sempre come terra del latte e del miele. Poco importa che si
tratti di un altrove materiale oppure metaforico, che il sogno di un nuovo
mondo sia inseguito in terre sconosciute, oltre la frontiera, o invece
perseguito attraverso il sovvertimento dei luoghi di appartenenza e delle loro
regole. Rifondare il proprio paese, ridisegnarne assetto sociale e sistema di valori, significa certo avventurarsi
su percorsi non meno selvaggi e inesplorati di qualsiasi regione remota. Adesso però, nessun altrove è più disponibile per rinsaldare motivazioni stanche
e offrire un fertile terreno a fedi e speranze inaridite. All’esaurimento di
territori incontaminati dall’uomo, estrema possibilità riservata un tempo a chi
intendesse ricominciare da zero, corrisponde il deperimento di ogni ipotesi di
sovvertimento e rifondazione totale dell’ordine dominante. Esodo, dunque, ma
senza terra promessa, addirittura senza avere alle spalle la forza di un
miraggio. Esodo oggi vuol dire rivendicazione della propria separatezza, del
proprio radicale essere altro rispetto a un mondo circostante a cui pure si
appartiene interamente. La rottura fondamentale rispetto alle varie forme
assunte nella storia dal mito dell’esodo, è qui, in questa compresenza di
separazione e di appartenenza, in un bisogno di scindere le proprie sorti dalle
prescrizioni imperiose del dominio, che quasi paradossalmente si sposa con l’impossibilità
di evadere oltre gli orizzonti che limitano questo mondo di servi, schiavi e dominati.
Oggi sappiamo che c’è
un momento per protestare e uno per uscire, a seconda dei rapporti di forza.
Non abbiamo più terre promesse verso cui incamminarci. Ma sappiamo che la fuga,
la defezione sono armi legittime del nostro arsenale politico. In ogni nostra
scelta si mescolano passioni e interessi, interessi travestiti da passioni, e
passioni camuffate da interessi. L’esodo ben sopporta una lettura non
messianica. L’esodo permette di capire qualcosa di più delle nostre società
anomiche? Va da sé che, oggi, lo spostamento spaziale è soppiantato
da una diversione sociale e culturale. L’esodo metaforico ma non meno incisivo,
si compie nelle mentalità e nell’ethos: ci si affranca da ruoli, gerarchie,
stili di vita. L’esodo, comunque, è l’origine del principio di speranza, anche
se la liberazione non garantisce l’eterna libertà. Esodo come mito che, pur
inteso secondo accezioni tra loro molto diverse, informa ogni esperienza
radicale e rivoluzionaria in occidente. L’esodo, in fondo, è
prima di tutto un viaggio e una ricerca. Così, la prima rivoluzione è interiore.
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