4.1.18

NEMESI MEDICA




Un invito alla lettura per sciogliere il pensiero dai vincoli dei luoghi comuni e stimolare una percezione diversa della realtà, dell'ecologia, della vita, dello spazio, del tempo e del corpo umano. «La iatrogenesi è clinica quando il dolore, la malattia e la morte sono il frutto di cure mediche; è sociale quando le politiche sanitarie rafforzano un'organizzazione industriale che genera malessere; è culturale e simbolica quando un comportamento e una serie di illusioni promossi dalla medicina restringono l'autonomia vitale degli individui insidiando la loro capacità di crescere, di aver cura l'uno dell'altro e di invecchiare, o quando l'intervento medico mutila le possibilità personali di far fronte al dolore, all'invalidità, all'angoscia e alla morte». Parola di Ivan Illich: il famoso saggio è stato pubblicato nel 1976, ma è d’attualità visto il dilagare del totalitarismo vaccinale. Ivan Illich (scomparso nel 2002) è stato uno di quei rari pensatori che riescono a mantenersi sempre coerenti tra ciò che affermano e ciò che fanno nella vita.

La tesi documentata di Illich, è che la prima minaccia per la salute sia rappresentata, nella nostra epoca, dalla corporazione medica. La pericolosità di questo «sistema di tutela della salute a carattere e basato sul medico» è tale che i danni da esso arrecati sopravanzano di gran lunga i benefici che da esso è possibile trarre. L’istituzione sanitaria, inoltre, occulta all’individuo la sua personale capacità di «guarire se stesso», senza dover far ricorso al monopolio della medicina “ufficiale”.
 
Il bersaglio degli scritti di Illich, indipendentemente dall’argomento specifico che aveva scelto di approfondire, è sempre stata la produttività, l’ideologia dello sviluppo affermatasi nel mondo industriale. La sua analisi ha toccato gli effetti del produttivismo su educazione e salute, i meccanismi di esclusione degli individui attraverso l’istituzionalizzazione della vita. La sua opera, per essere compresa, va letta tutta insieme: la medicina, la scuola, il lavoro, i trasporti e tutte gli altri “strumenti” vanno studiati in quanto ci fanno comprendere le contraddizioni ed i paradossi delle società contemporanee, ormai sempre più globalizzate. Sono sintomi diversi della stessa malattia. In un’intervista immediatamente successiva alla pubblicazione in Italia di Nemesi Medica, lo stesso Illich ha affermato (a cura di L. Bovo e P. Bruzzichelli: Illich risponde dopo “Nemesi medica”, pagg. 24-25, Cittadella Editrice, Assisi 1978):

”Mi sono occupato di medicina soprattutto per illustrare una tesi economica […] Per me dunque Nemesi Medica non è un libro di medicina, ma un libro che vuole spingere a un’analisi tendente a rovesciare l’attuale nostro modo di vedere la realtà politico-economica […]” Per accrescere la salute dell’uomo la medicina non basta: questa, superato un certo limite, diventa addirittura dannosa. E questo vale per ogni istituzione ed ogni strumento “dominante”. 

«Ovunque si posi l’ombra della crescita economica, noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o se non siamo impegnati a consumare; il tentativo di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerato una bizzarria anarchica». Illich parla di modernizzazione della povertà, la quale produce come effetto il fatto «che la gente non è più in grado di riconoscere l’evidenza quando non sia attestata da un professionista, sia egli un meteorologo televisivo o un educatore; che un disturbo organico diventa intollerabilmente minaccioso se non è medicalizzato mettendosi nelle mani di un terapista; che non si hanno più relazioni con gli amici se non si dispone di veicoli per coprire la distanza che ci separa da loro (e che è creata prima di tutto dai veicoli stessi).” (Ivan Illich, Per una storia dei bisogni, pagg. 9-10, Arnoldo Mondadori, Milano 1981).

La liberazione totale della singolarità di ogni individuo  a prescindere dalla sua cultura, dal suo reddito, dal suo ruolo nel sistema produttivo. L’intento di Illich è dunque quello di offrire una critica della società contemporanea a tutto tondo, a partire dall’ideale della produttività che caratterizza tutte le istituzioni, portandole ad uno stato paradossale. Non solo la medicina, dunque, ma anche la scuola, i trasporti, le abitazioni, la Chiesa, il sistema politico e così via.

Bisogna sottolineare che in Illich non c’è solo una critica, ma troviamo anche una proposta, forse utopica, ma comunque affascinante: la convivialità, che egli ha sicuramente tentato, riuscendovi, di realizzare nella sua vita.

In Nemesi medica Ivan Illich propone una riflessione radicale sulla medicina e sull'estensione del suo potere sulla società. Il saggio si apre con un'affermazione che pare sconcertante: "La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute". Un pensiero che va contro tutto quello che si crede comunemente e che inverte la fede diffusa nella bontà e nella necessità - in ogni caso - della medicina. Il discorso di Illich, invece, verte sulla iatrogenesi, di cui sottolinea tre aspetti, simili a tre livelli di una piramide. Al livello più elementare si ha iatrogenesi clinica tutte le volte in cui l'applicazione di cure mediche, lungi dal guarire l'individuo dalla malattia, funzionano a loro volta da agenti patogeni. Spesso, infatti, sono farmaci, medici e ospedali a causare malattie di vario tipo, ancora più di batteri, virus o altre cause note.

A un secondo livello c'è, secondo Illich, la iatrogenesi sociale, in cui la medicina promuove malessere e rafforza una società morbosa che spinge a consumare medicina curativa, preventiva o de lavoro. Questo secondo livello di iatrogenesi si manifesta attraverso i sintomi di supermedicalizzazione sociale, quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, come se fosse un prodotto industriale. A questo livello la medicina si arroga l'autorità e la pretesa di stabilire che cosa è la malattia e chi è il malato: di questo ho già parlato altrove e qualcun altro lo ha fatto anche meglio di me, ma qui Illich ribadisce il concetto, chiarendo che ogni civiltà definisce le sue malattie, stabilendo inoltre che cosa è "deviante" rispetto al concetto di salute. Questa definizione non è mai priva di connotazioni politiche e, infatti, la medicalizzazione del malessere dell'individuo (ridefinito come paziente) "ha come risultato la castrazione politica della sua sofferenza". Si addossa, insomma, alla malattia individuale la colpa della sofferenza e si spuntano le armi dell'individuo, che, reso ottuso, viene privato della capacità di intervenire nel mondo e modificare ciò che gli provoca disagio (per esempio, un'organizzazione disumana del lavoro). Parte della iatrogenesi sociale è anche l'imperialismo diagnostico - così definito da Illich -, per effetto del quale tutta la vita di un individuo, nei suoi vari periodi, si scompone in una serie di segmenti di rischio, che devono sempre essere sottoposti a supervisione medica. E' interessante, per esempio, l'osservazione per cui una certa diagnosi influenza la risposta del paziente, assegnandogli un certo ruolo: si presume che l'opinione del medico sia "autorevole" e questa autorevolezza non ha un effetto neutro su chi ascolta il parere medico. Pagine molto acute sono riservate, in questa seconda parte dedicata alla iatrogenesi sociale, alla medicalizzazione del bilancio, riguardo al quale Illich va assolutamente controtendenza. Le cure mediche essenziali, afferma, possono essere prestate anche da persone non specializzate, sono facili da apprendere e costano poco, mentre l'iperspecializzazione ha un costo altissimo e, inizialmente destinata a pochi, si pretende che venga estesa a sempre più gente, senza che ve ne sia reale necessità, provocando, appunto, una progressiva medicalizzazione dei bilanci statali.

Il terzo livello di iatrogenesi - a cui Ivan Illich dedica la terza parte del saggio - è la iatrogenesi culturale che, secondo il filosofo, ha inizio quando l'impresa medica «distrugge nella gente la volontà di soffrire la propria condizione reale». Illich afferma che la civiltà medica ha ridotto il dolore a problema tecnico e lo ha privato del significato personale, poiché il dolore sarebbe il sintomo di un confronto con la realtà e non può essere "oggettivamente misurabile" e trattato allo stesso modo per tutti. Il dolore, insomma, è unico e appartiene solo al soggetto senziente: il dolore degli altri noi lo supponiamo, ma non lo sentiamo, il che crea la consapevolezza di una solitudine estrema. La medicina, invece, pretende di obiettivare il dolore e le sfugge il risvolto personale della sofferenza. Questo è sicuramente esatto, ma che cosa accade quando l'individuo (malato o sofferente) non assegna alcun valore al proprio dolore? In questo caso l'individuo deve essere costretto a trovare, a tutti i costi, un significato alla propria sofferenza?  Dopo il dolore, Illich affronta, in una sorta di excursus, la storia dell'invenzione dell' "ospedale", da luogo che inizialmente raccoglieva gli incurabili e non era certamente la norma, fino alla sua forma odierna, ovvero quella di «un'officina di riparazione a compartimenti stagni». Con la penetrazione della nuova civiltà medica metropolitana, inoltre, si crea anche una nuova immagine della morte. Per descriverla, Illich ne racconta un po' l'evoluzione, partendo dalla "danza dei morti" del quattordicesimo secolo, in cui ogni individuo, in ogni momento, "danzava" con la propria mortalità. Nei secoli seguenti, il povero che muore non è mai assistito e, al massimo, il medico ha il compito di riconoscere la "facies hippocratica", ovvero i tratti tipici che indicano che il paziente sta per morire. Solo alla fine del diciassettesimo secolo si diffonde una nuova mentalità e l'illuminismo attribuisce un nuovo compito al medico, il quale si trova così a "lottare" al capezzale del paziente con malattie che, talvolta, vengono rappresentate in maniera personificata. La lotta contro la morte finisce per diventare un "diritto civile" e compito del medico è quello di salvare vite umane, anche quando dovrebbe invece riconoscere che non c'è più nulla da salvare. Da qui deriva non solo la possibilità (abbastanza irrealistica) di curare da tutte le malattie e di sconfiggere la morte, ma anche, con un salto logico, l'obbligo di essere curati e di accettare di buon grado le cure dei medici. L'uomo occidentale, secondo Illich, ha perso il diritto di presiedere all'atto di morire e viene espropriato della libertà di scelta su di sé e sulla propria salute. Illich auspica invece che «nessuna assistenza dovrà essere imposta a un individuo contro la sua volontà: nessuna persona, senza il suo consenso, potrà essere presa, rinchiusa, ricoverata, curata o comunque molestata in nome della salute».  

Illich sostiene infine che la medicina non è una scienza qualsiasi, ma si trova su una linea di confine. Il metodo scientifico fa esperimenti su dei modelli, mentre la medicina li fa direttamente sugli stessi pazienti, ma Ïsul vissuto significativo della guarigione, della sofferenza e della morte, la medicina non ci dice più di quanto l'analisi chimica ci dica riguardo al valore estetico di una ceramica». Ogni cura non è che la ripetizione di un esperimento, con una probabilità di successo definita statisticamente, mentre più importante sarebbe il recupero dell'autonomia personale. Insomma: «La società che sa ridurre al minimo l'intervento professionale offre le migliori condizioni per la salute».
Negli ultimi dodici anni Illich - che tenne l’ultima sua conferenza a Lucca - soffrì di un tumore che lo sfigurò ma per il quale rifiutò assistenza medica.


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