28.10.13

ONORE A ENRICO MATTEI: VITTIMA DI UN ATTENTATO IMPUNITO

Enrico Mattei







di Gianni Lannes


Mezzo secolo fa, ma secondo le coordinate geopolitiche è adesso. 27 ottobre 1962, ore 18 e 57 minuti, secondo più secondo meno. Sembra ieri, ma è oggi, e incombe l’attualità: gas, petrolio, terzo mondo, politica internazionale, indipendenza, sovranità nazionale, nuovo ordine mondiale. 

C’è un aereo - un Morane Saulnier 760 Paris II - che sta volando da Catania a Milano. A bordo ci sono tre passeggeri: Enrico Mattei, presidente della più importante agenzia petrolifera italiana, quella statale, l’esperto pilota Irnerio Bertuzzi, e il giornalista William McHale, capo delle redazione romana delle riviste Time e Life. 

Ore 18 e 54 minuti: fra poco più di 3 minuti saranno morti. Ore 18 e 55 minuti il velivolo è in rotta con il radiofaro di Linate. Il comandante Bertuzzi comunica con la torre di controllo. India Papa Alfa annuncia sono a duemila piedi. Ore 18, 56 minuti e 30 secondi: l’aereo sta compiendo la manovra d’atterraggio. Si apre il carrello e scoppia un ordigno. Il piccolo aeroplano si schianta nella campagna di Bascapè. 


C’è un testimone oculare: il contadino Mario Ronchi, che però, su pressioni dei vertici dell’Eni al momento opportuno cambia versione. Nell’archivio della Rai c’è addirittura un’intervista a caldo di Ronchi, dove è stato cancellato l’audio nel momento in cui Ronchi racconta di aver visto l’esplosione in volo. Incombe Eugenio Cefis, vero capo della P2, come aveva intuito il giornalista Mauro De Mauro (scomparso mercoledi 16 settembre 1970 dopo le 21 a Palermo, e mai più ritrovato) nonché Pier Paolo Pasolini, assassinato su ordine degli stessi mandanti il 2 novembre 1975, mentre sta ultimando il romanzo (saggio) Petrolio. Cefis era stato cacciato via dall’Eni proprio da Mattei.


L’inchiesta è condotta dalla Procura della Repubblica di Pavia e dal generale Ercole Savi per conto dell’Aeronautica Militare - su richiesta dell’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti - che archiviano il caso nel 1966 come incidente. Secondo questa ridicola ricostruzione, senza uno straccio di prove, il pilota avrebbe perso il controllo del velivolo.

Le indagini saranno riaperte a Pavia dal pubblico ministero Vincenzo Calìa nel 1994, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta. Il nuovo accertamento giudiziario rileva la presenza di tracce di esplosivo sul relitto e sui resti umani delle vittime. Negli atti giudiziari (procedimento penale numero 349/95, pagina 129) è scritto che:

«l’indagine tecnica, confortata dalle prove orali e documentali raccolte, in assenza di evidenze contrarie, permette di ritenere inequivocabilmente provato che (l’aereo sul quale viaggiava Mattei, ndr) è precipitato a seguito di un’esplosione limitata, non distruttiva, verificatasi all’interno del velivolo». 

Secondo il magistrato in base al rapporto della Scientifica, Enrico Mattei sarebbe stato ucciso con una bomba a bordo dell’aereo in fase di atterraggio. Nonostante le evidenze, compresa la presenza dei servizi segreti e la manovalanza di Cosa Nostra, il giudice è costretto a richiedere l’archiviazione del procedimento nel 2005, sebbene abbia stabilito che il Morane Saulnier della Snam partito dall’aeroporto di Catania, su cui viaggiava il presidente dell’Eni, fu sabotato. 

Le indagini di Pavia, scaturite precisamente dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta e di un pentito della “Stidda” di Gela, Gaetano Iannì, hanno stabilito un punto fermo. 

«Deve ritenersi…acquisita la prova che l’aereo a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William Mc Hale e Irnerio Bertuzzi venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962», ha scritto il pubblico ministero Calìa. 
«L’indagine tecnica confortata dalle testimonianze orali e dalle prove documentali…ha infatti permesso di ritenere inequivocabilmente provato che l’I-Snap (nome in codice dell’aereo, ndr) precipitò a seguito di un’esplosione limitata, non distruttiva, verificatasi all’interno del velivolo». 

E ancora: 

«Come è già stato dimostrato il mezzo utilizzato fu una limitata carica esplosiva probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello».
La programmazione e l’esecuzione dell’attentato furono complesse e coinvolsero, argomenta Calìa, «…uomini inseriti nello stesso ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano. Tale coinvolgimento trova conferma nei depistaggi, nelle manipolazioni, nelle soppressioni di prove e di documenti, nelle pressioni, nelle minacce e nell’assoluta mancanza, in ogni archivio, di qualsiasi documento relativo alle indagini e agli accertamenti sulla morte di uno dei personaggi più eminenti nel quadro economico e politico dell’epoca». 

E più avanti: 

«E’ facile arguire che tale imponente attività, protrattasi nel tempo, prima per la preparazione e l’esecuzione del delitto e poi per disinformare e depistare, non può essere ascritta…esclusivamente a gruppi criminali, mafiosi, economici, italiani e stranieri, a “sette […o singole] sorelle” o servizi segreti di altri Paesi, se non con l’appoggio e la fattiva collaborazione…di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nello stesso ente di Stato petrolifero, che hanno conseguito ordini o consigli, deliberato autonomamente o col consenso e il sostegno di interessi coincidenti, ma che, comunque, da quel delitto hanno conseguito diretti vantaggi».

Ha concluso il magistrato Calìa: 

«Le prove orali documentali e logiche raccolte…non permettono l’individuazione degli esecutori materiali né, per quanto concerne i mandanti, possono condurre oltre i sospetti e le illazioni…di per sé inadeguati non soltanto a sostenere richieste di rinvio a giudizio, ma anche a giustificare l’iscrizione di singoli nominativi sul registro degli indagati».

Delitto, anzi strage in cerca d’autore. Così l’accusa chiuse il caso, chiedendo e ottenendo dal giudice l’archiviazione delle indagini. Una scelta a dir poco incongruente con le risultanze, in base all’assunto che se crimine c’è dev’esservi anche un criminale (o più di uno), che l’abbia commesso.

Infatti, le perizie sui frammenti metallici che furono estratti dai resti anatomici di Mattei e Bertuzzi dopo la loro esumazione e le analisi  sulle viti di un piccolo strumento fissato al cruscotto dell’areo, l’”indicatore triplo”, che il capo del magazzino centrale della Snam aveva portato a casa e conservato, permisero di rilevare su questi oggetti tracce riconducibili a un’esplosione provocata da un ordigno di qualche decina di grammi forse nascosto nella parte sinistra della cabina di pilotaggio, dov’era ai comandi Bertuzzi. Il magistrato precisò che la carica di esplosivo era collegata all’interruttore di comando dei carrelli, che il pilota aveva già provveduto ad azionare dopo l’ultima comunicazione con la torre di controllo di Linate, alle 18,57. L’esplosione mise fuori uso la strumentazione di bordo, frantumò il tettuccio, il parabrezza, i finestrini del Morane Saulnier, stordì il pilota e i passeggeri.

Il velivolo precipitò su un campo allagato dalle piogge, conficcandosi nel terreno dopo una strisciata di una decina di metri. La maggior parte dei rottami con i due reattori furono trovati interrati nella buca che l’aereo aveva scavato nel violentissimo impatto con il suolo fangoso. Decine di persone udirono il rombo forte e anomalo di un aereo che volava a bassissima quota, ad alzare gli occhi e a scorgere un bagliore improvviso nel cielo, seguito da una pioggia di particelle in fiamme.

Il primo a parlare di una palla di fuoco in cielo che si frantumava in stelle filanti fu Mario Ronchi, un contadino che abitava in una cascina in località Albaredo, a 300 metri dal punto d’impatto dell’aereo. Ronchi rilasciò a caldo queste dichiarazioni a un giornalista televisivo della Rai. Ma davanti alla commissione d’inchiesta ritrattò. Il giudice Calìa appurò in seguito che l’agricoltore, in cambio del silenzio, aveva goduto per tutti questi anni di benefici economici, tra cui l’assunzione della figlia, Giovanna, per sedici anni in una società riconducibile  a Cefis, la Pro.De. E scoprì che la parte sonora del nastro che era stato utilizzato per le riprese della Rai risultava cancellata proprio nel punto in cui Ronchi descriveva la dinamica dell’accaduto. La verità emerse dall’esame labiale delle immagini video nonostante l’agricoltore si ostinasse a negare, davanti al magistrato, ciò che aveva visto quella sera.

Le testimonianze di quanti avevano visto ed erano accorsi ad Albaredo indicarono in modo concorde circostanze che la commissione ministeriale, presieduta dal generale dell’aeronautica Ercole Savi, aveva trascurate o ignorate. A parte la conferma che la ruota sinistra dell’aereo era stata ritrovata intatta a circa cento metri dal relitto, e che altri rottami giacevano a decine di metri dal corpo dell’aereo, quasi tutti i testimoni riferirono di aver visto brandelli di carne umana e piccoli parti incandescenti o fuse del velivolo, ancora fumanti, sparse nel raggio di 300-400 metri dal relitto, di avere visto altri brandelli di carne e i resti di un braccio penzolare dalle cime dei pioppi e di aver notato che gli alberi intorno al relitto non avevano preso fuoco a riprova del fatto che il Morane Saulnier non esplose a terra, ma in volo e che le fiamme sulla coda dell’aereo, che fuoriusciva dal terreno, erano alimentate dal kerosene riversatosi per la rottura del serbatoio.

Il ritrovamento di resti umani e parti dell’aereo così distanti dal relitto non si concilia con l’incidente. Quando l’aereo precipita per un incidente, i corpi hanno la stessa velocità di caduta del velivolo e il loro smembramento avviene con l’impatto. In questo caso, invece, brandelli di carne sono stati ritrovati anche nei due reattori, come conferma la relazione dei vigili del fuoco. I corpi arrivarono dunque a terra già smembrati. Solo un’esplosione in aria può aver generato un movimento laterale di pezzi dell’aereo e di resti umani. L’esplosione, infatti, provoca un cono di frammenti, mentre la caduta non genera movimento laterale se non per fortuiti rimbalzi che nel caso in questione non poterono esservi perché il velivolo precipitò in un pantano di fango. Il carrello ritrovato lontano si sarebbe dovuto infossare con la fusoliera. Ed è possibile individuare tracce di esplosivo a oltre trent’anni di distanza perché i residui incombusti di un’esplosione sono chimicamente molto stabili  e resistono persino per molti anni al lavaggio dell’acqua.

Le particelle incombuste avrebbero dovuto essere ricercate, subito dopo il disastro, sui resti dell’aereo e sui frammenti conficcati nei corpi, ma la commissione ministeriale aveva fretta di chiudere l’inchiesta. Il direttore dell’Istituto di medicina legale, Tiziano Formaggio, riferì che i resti anatomici di Mattei, Bertuzzi e Mc Hale furono portati in laboratorio già “detersi” del fango e, siccome si dava per scontato l’incidente, non furono fatti accertamenti per stabilire se la causa delle lesioni fosse da attribuire a deflagrazione in volo. A questa versione aderì anche l’allora presidente del consiglio Amintore Fanfani. Non solo: dal Tribunale di Pavia, che chiuse la prima inchiesta sul disastro nel 1966 con un «non luogo a procedere per insussistenza del fatto», la Snam ebbe restituiti su sua richiesta i resti del velivolo, di cui si disfece dopo averli lavati e fusi.

Della vicenda di Mattei si sono occupati in molti, forse troppi inconcludenti. Sono stati pubblicati decine di libri e centinaia di articoli. Tutto in un unico calderone: processi, inchieste, indagini, soprattutto chiacchiere morte e tanta confusione alimentata come sempre ad arte, dai servizi di intelligence italiani e stranieri.  

Singolare coincidenza. Il 25 ottobre 1962 il Financial Times di Londra pubblica una corrispondenza da Roma dal sapore inquietante. Il titolo è: “La scena italiana. Il signor Mattei dovrà andarsene”? Il dettaglio potrebbe apparire trascurabile se non fosse che, due giorni dopo, proprio il “signor Mattei” perde la vita in un attentato.



Non a caso, proprio in quei mesi si era attivata la produzione da parte britannica (Foreign Office e ministero dell’Energia) di una serie di memorandum segreti che mettevano in risalto la pericolosità del fondatore dell’Eni nei confronti degli interessi inglesi in Africa, Asia e Medio Oriente. Rapporti elaborati nel luglio e agosto 1962.  




Secondo sir Ashley Clarke, ambasciatore di sua maestà Windsor a Roma, nel 1957 Mattei aveva obiettivi molto chiari. Il primo, piuttosto ambizioso, era di “dominare la distribuzione dei prodotti petroliferi in Italia” mediante un controllo sulle fonti. Un modo per garantire al suo Paese scorte sufficienti di greggio, necessarie all’industria petrolifera nazionale e allo sviluppo industriale. Era questo un modo di continuare la Resistenza: sia perché le grandi compagnie petrolifere costituivano oggettivamente un impero destinato a influenzare la politica e la finanza su scala planetaria, sia perché nella sua tempra di uomo tutto d’un pezzo, la sua personale lotta contribuiva ai suoi ideali di patria e di dignità nazionale.



Ma l’obiettivo di evitare la dipendenza petrolifera dai britannici e dagli americani non era un affare di poco conto. Anche per le sue gravi implicazioni geopolitiche. Basti pensare che l’Italia rivestiva la duplice funzione di centro nevralgico dell’anticomunismo in Europa e di controllo delle risorse energetiche del Medio Oriente. 




Una partita alla quale dal 1943-‘45 giocano da un lato grandi compagnie come la Standard Oil Company per gli Usa e la Shell per la Gran Bretagna con i suoi dominions in Medio Oriente, come in Iraq, Transgiordania ed Egitto; dall’altro, per l’Unione sovietica, una politica di espansione ideologica e di alleanza con gli Stati emergenti dalla lotta anticoloniale.  



Nel 1962 il fondatore dell’Eni aveva allo studio un’intesa con le major nordamericane, ed era in procinto di partire per gli Usa per un incontro con il presidente, John Fitzgerald Kennedy, e il conferimento di una laurea ad honorem alla Stanford University.   





Nell’ufficio del giudice Calìa sfilarono i vertici delle istituzioni: sottufficiali e alti ufficiali dei servizi, dei Carabinieri e dell’aeronautica militare; politicanti; i parenti di Mattei; i familiari di Mauro De Mauro, il giornalista del quotidiano “L’Ora” di Palermo scomparso mentre indagava sugli ultimi due giorni di Mattei in Sicilia; Eugenio Cefis, che dopo aver preso il posto di Mattei aveva scalato la Montedison e ne aveva assunto la presidenza, lasciando l’Eni; nonché personaggi come Vito Guarrasi, il potente e ambiguo avvocato palermitano, lontano cugino del banchiere Enrico Cuccia, che partecipò all’armistizio corto di Cassibile (3 settembre 1943).

Da qualsiasi lato lo si osservi, il delitto Mattei appare come una delle prime e più  efficaci azioni di depistaggio e disinformazione nella storia della Repubblica. La collaborazione di Cosa Nostra al sabotaggio del Morane Saulnier parcheggiato a Fontanarossa sarebbe arrivata dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, che era molto vicino a Graziano Verzotto, il segretario regionale della Dc, responsabile delle relazioni esterne dell’Eni nell’Isola, che sarebbe stato nominato presidente dell’Ente minerario siciliano. Del resto senza la mafia non ci sarebbe stato lo sbarco in Sicilia dei cosiddetti "alleati". E non a caso all'articolo 16 del Trattato di Parigi (1947), ratificato in Italia nel 1952, è allegata una clausola segreta con un elenco di personaggi intoccabili dalle istituzioni italiane (ossia boss e avanzi di galera).

Mattei era restìo ad andare in Sicilia perché ne era appena tornato. Le minacce di morte che aveva ricevuto - tra cui quelle dell’Oas, l’Organizzazione dell’armata segreta, che  perseguiva il mantenimento della presenza coloniale francese in Algeria ed aveva attentato anche alla vita di De Gaulle - lo avevano reso cauto. A persuaderlo a ripartire per Gagliano Castelferrato, un Comune della provincia di Enna, e in cui l’Eni aveva trovato metano, furono le insistenze del presidente della Regione siciliana, Giuseppe D’Angelo. Questi disse a Mattei che la sua presenza a Gagliano era necessaria per calmare gli abitanti insorti nel timore che l’Eni non volesse realizzare gli investimenti promessi. Mentiva. Mattei ricevette un’accoglienza entusiastica, il suo discorso fu un trionfo. In realtà, come appurerà De Mauro, incaricato dal regista Franco Rosi, che stava girando “Il caso Mattei”, di ricostruire gli ultimi giorni di vita del presidente, il viaggio in Sicilia si rivelò una trappola mortale: servì ad attirare Mattei in trinacria, a costringerlo a spostare l’aereo da Gela a Catania, dove qualcuno lo avrebbe sabotato, e ad anticipare la partenza dalla sera al pomeriggio del 27 ottobre. Invitato ripetutamente da Mattei ad accompagnarlo nel volo di ritorno a Milano, D’Angelo oppose sempre uno strano rifiuto. Intorno a questo diniego si arrovellò il coraggioso cronista De Mauro, sbobinando i discorsi di Gagliano. 

Mattei aveva surrogato la politica estera del Governo, scompaginato i giochi delle major petrolifere, disturbato gli interessi degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica per le sue posizioni terzomondiste e le sue aperture all’Urss e agli Stati mediorientali; esercitava una forte influenza su chi avrebbe dovuto controllarlo, il ministro delle Partecipazioni statali Giorgio Bo; aveva un forte ascendente su Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica; aveva creato dal nulla la corrente democristiana di base, guidata da Giovanni Marcora. E con la forza e il denaro dell’Eni alimentava la politica, i partiti. E a differenza degli altri lo dichiarava.

Per alcuni, le cause della morte di Mattei sarebbero da ricercare in un accordo con l’Algeria, molto avversato dalle compagnie Usa, che era in preparazione proprio in quei giorni e avrebbe dovuto portare alla partecipazione italo-francese in alcuni giacimenti nel Sahara, alla costruzione di una raffineria italo-algerina e a una consistente fornitura di metano che avrebbe dovuto essere trasportata con un gasdotto via Gilbiterra, Spagna, Francia e Italia. Quando il Morane Saulnier cadde dal cielo di Bascapè, scrisse Italo Pietra, che aveva diretto “Il Giorno”, fondato da Mattei,  mancavano otto giorni all’incontro di Algeri e pochi mesi alla visita di pacificazione negli Usa.

Allora perché Mattei doveva morire? Anche dopo gli accordi con l’Egitto e l’Iran, con cui puntava a spezzare il cartello delle 7 sorelle, Mattei era rimasto un petroliere senza petrolio. Il contratto di approvvigionamento di greggio dall’Urss, economicamente vantaggioso per l'Italia, che aveva sottoscritto nel 1958 urtando gli interessi di Washington, aveva lo scopo di sopperire alla scarsa o nulla produzione di greggio nei Paesi in cui il gruppo era riuscito a strappare concessioni minerarie. La storia delle “sette sorelle” mandanti dell’omicidio regge, dunque, fino a un certo punto, anche se è vero che Cefis, dopo la morte di Mattei, lasciò cadere l’accordo con l’Algeria e firmò un’intesa con la Esso per una fornitura di gas dalla Libia tramite navi metaniere. Nel 1962 la fase dello scontro frontale con le major sembrava cessata. L’intervista del 1958 a Cyrus Sulzberger, direttore e editore del “New York Times”, in cui Mattei aveva detto di essere “antiamericano”, “contrario alla Nato”, “neutralista”, era acqua passata. L’incontro con Kennedy, anche in vista della costituzione del governo di centro-sinistra tra Dc e Psi, avrebbe messo tutto a posto. L’ex presidente della Esso Italiana, Giuseppe Cazzaniga, sostenne che nel 1962 tra le compagnie Usa e l’Eni “s’era cominciata a intravedere un’evoluzione positiva dei rapporti” e che Agip e Esso sarebbero potute entrare insieme “nelle raffinerie in Africa”.

Il magistrato di Pavia cercò anche di mettere a fuoco la figura, assai controversa, di Eugenio Cefis. Come scrive in una nota agli atti dell’inchiesta il giornalista Pietro Zullino (che per  “Epoca” indagò a fondo sulla scomparsa di De Mauro), Cefis aveva forti cointeressenze nelle raffinerie Sarom di Ravenna e Mediterranea di Gaeta che rifornivano il sistema Nato per l’Europa del Sud e la Sesta flotta e per questo contrastava il progetto di Mattei di trasformare l’Alleanza Atlantica in un cliente dell’Eni. De Mauro potrebbe averlo scoperto nel corso della sua inchiesta.

Cefis, quando Mattei morì, era già fuori dell’Eni. Italo Mattei riferì che il fratello Enrico aveva scoperto il doppio gioco di Cefis con i servizi americani e lo avrebbe costretto, per questo e per via di certi altri affari, alle dimissioni dall’Eni. Cefis risultava legato ai servizi italiani e amico del generale Giovanni Allavena, il comandante del Sifar costretto a lasciare i servizi dopo la scoperta dei famosi fascicoli segreti . In un documento del Sismi redatto su notizie «…acquisite il 20 settembre 1983 da professionisti molto vicini ad elementi iscritti alla loggia P2» - documento anch’esso agli atti di Pavia - la loggia segreta Propaganda 2 risulterebbe «…fondata da Eugenio Cefis che l’ha gestita - vi si legge - fino a quando è rimasto presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi violenti contro uomini legati ad Andreotti con il quale si giunse ad un armistizio per interessi comuni: lo scandalo dei petroli».  

Nello stesso tempo, appunta Zullino,  De Mauro potrebbe avere scoperto un'altra storia su Guarrasi, che era consulente dell’Eni e di cui Mattei s’era servito per sostenere nel 1958 il milazzismo, il governo regionale siciliano guidato da Silvio Milazzo e sostenuto da Msi, Pci e Unione Siciliana Cristiano Sociale, il partito nato da una scissione della Dc nell’Isola. L’avvocato Guarrasi, secondo Zullino, aveva fornito alla mafia i piani di costruzione dell’impianto petrolchimico dell’Anic di Gela e la mappa dei terreni su cui avrebbe dovuto essere edificato lo stabilimento, consentendo a Cosa Nostra di acquistare le aree a poco prezzo per rivenderle all’Eni con un guadagno consistente.

Il caso De Mauro scottava se è vero che il giornalista aveva scoperto qualcosa di molto eclatante collegato alla morte di Mattei. Nel novembre 1970, in una riunione tra i vertici dei servizi segreti e i responsabili della polizia giudiziaria, che si svolse a Palermo, fu così deciso l’”annacquamento” delle indagini. Alla riunione era presente il generale Vito Miceli, succeduto il 18 ottobre all’ammiraglio Eugenio Henke al vertice dei servizi. Usò proprio il termine “annacquamento” il commissario di polizia Boris Giuliano nel riferire la circostanza. Giuliano indagava sul caso De Mauro insieme a Bruno Contrada, poi divenuto numero tre del Sisde, ma fu ucciso dalla mafia il 21 luglio 1979. L’anno dopo la scomparsa di De Mauro, nel maggio 1971, era stato invece ammazzato il procuratore capo di Palermo, Pietro Scaglione, che aveva indagato su vari delitti di Cosa Nostra, tra cui il rapimento De Mauro. Le Brigate Rosse (eterodirette dall'estero, ma plasmate nello Stivale) provvederanno a eliminare il Procuratore generale di Genova Francesco Coco, che aveva indagato a sua volta su De Mauro e Scaglione. E anche il boss Di Cristina viene tolto di mezzo dai corleonesi nel 1978, pochi giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro, dopo che aveva deciso di collaborare con le autorità di Polizia. Contrada  invece ha scontato una condanna definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

Va inoltre registrata la presenza di una pedina di Gladio - Giulio Paver - tra le guardie del corpo di Mattei nel periodo 1960-62. Coincidenza: una delle tre persone che a Fontanarossa s’avvicinarono all’aereo della Snam, mentre Bertuzzi si recava al bar per rispondere al telefono, si qualificò come capitano Grillo.  E - se è vero quanto scrive Nico Perrone nel suo “Obiettivo Mattei” - “preziosi elementi informativi” sul presidente dell’Eni venivano trasferiti alla Cia dal colonnello del Sifar Renzo Rocca, reclutatore per i gruppi “Stay Behind” e “coordinatore di finanziamenti industriali americani e italiani per combattere il comunismo”. Rocca,  morto in circostanze misteriose, teneva i rapporti con il capo della stazione Cia di Roma Thomas Karamessines, che dopo la fine di Mattei - scrive Perrone -  fu richiamato negli Usa per partecipare all’operazione coperta che portò all’individuazione e all’uccisione in Bolivia di Ernesto Che Guevara.   

«Chissà, forse l’abbattimento dell’aereo di Mattei più di vent’anni fa è stato il primo gesto terroristico nel nostro Paese, il primo atto della piaga che ci perseguita». Cosa volle dire Amintore Fanfani con questa dichiarazione nell’ottobre 1986 al congresso dei partigiani cattolici? Difficile credere che gli fosse scappata di bocca. Ma quando il pubblico ministero Calìa gli chiede cosa avesse inteso dire aveva già perso la memoria. Fanfani doveva sapere molte cose sulla fine di Mattei. Il 28 ottobre, il giorno dopo la sciagura, l’allora ministro dell’interno Paolo Emilio Taviani chiama il presidente del Consiglio per informarlo che sta facendosi strada l’ipotesi dell’incidente. E’ Taviani a riferirlo al magistrato. Dopo di che è Fanfani a telefonare a Taviani. Il ministro sta per riferirgli altri particolari sulla caduta dell’aereo, ma Fanfani lo interrompe bruscamente  preoccupato della gravità della crisi di Cuba. 

Il 16 ottobre 1962 Kennedy aveva ricevuto le riprese fotografiche di aerei spia americani che provavano la presenza di basi missilistiche sovietiche a Cuba. La strategia dell’Urss era di usare le basi cubane come merce di scambio per ottenere la rimozione dei missili nucleari Jupiter che gli Usa avevano installato in Turchia ed Italia (in Puglia a Poggiorsini sulla Murgia). La tensione tra le due superpotenze nucleari arrivò al punto che Kennedy aveva dato disposizioni per preparare l’invasione di Cuba. Il segretario di Stato, Dean Rusk, ammise che in quei giorni si fronteggiò la crisi più pericolosa mai vista tra Usa e Urss. Dichiarò Taviani: «La mattina del 28 ottobre 1962 siamo stati a due ore dalla guerra». In quel frangente era essenziale conoscere la posizione dell’Italia nel quadro dell’Alleanza Atlantica. E le idee neutraliste di Mattei, data l’influenza che egli esercitava sulla politica estera e sul Governo, rappresentavano un rischio.  

Enrico Mattei

Chi era Mattei? Un grande uomo che aveva a cuore il suo Paese ma anche il “Terzo mondo”. Nato il 29 aprile 1906 ad Acqualagna nelle Marche da una famiglia non agiata, Mattei fu certamente una persona straordinaria, dalla vita breve e intensa. Un gigante politico ucciso 51 anni fa che stava realizzando il bene comune per l’Italia. Un temerario che richiama la figura di Aldo Moro, al quale lo lega il filo di una morte violenta e tragica, e quell’orgoglio personale e nazionale che voleva fare dell’Italia un Paese autenticamente sovrano. Voleva riscattare il nostro Paese dalla mediocrità (allora come oggi imperante) e dall’emarginazione nello scenario mondiale. 



Mattei aveva un sogno tutto italiano. Diceva che “l’Italia aveva bisogno di lavorare, ma non di andare all’estero solo come dei poveri migranti con la sola forza delle proprie braccia, bensì come degli imprenditori con l’esperienza tecnica”, degna di un Paese all’avanguardia. Amava l’Italia prima del Capitale, infatti, operava solo per l’interesse nazionale, senza rendere conto ai vertici politici nazionali, che invece operavano a favore del proprio tornaconto e per soggetti terzi.

L’Italia sarebbe stata un Paese diverso se questo leader avesse sviluppato per intero il suo potenziale ideale e operativo. Per dare al nostro Paese autonomia in campo energetico, presupposto fondamentale della sovranità di ogni Stato che si rispetti. Al contrario l’Italia è stata, dopo la sua morte, un Paese sempre più al rimorchio da altre realtà nazionali dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici, ma purtroppo, non solo. 


 filmati e documenti:





  



Post scriptum

Non è possibile che su una questione che ha predeterminato simili, anche solo eventuali e mai cercati/chiariti sviluppi si sia ancora nella semplice ipotesi di mistero quando l'accertamento di simili fatti darebbe immediatamente la spiegazione delle situazioni che solo in questo Stato sono 'incomprensibili. Viceversa, con queste spiegazioni non vi è soltanto un filo, ma un solido cordone che evidenzia il perché di tante cose che con questa logica perversa sono state fatte o non fatte e/o perchè fatte in un certo modo 'inspiegabile'.  Se qualcuno finanziasse un’accurata indagine giornalistica sarei disposto a individuare i veri responsabili dell’attentato a Mattei! Ancora oggi mandanti ed esecutori materiali restano impuniti. Quei criminali si annidano in quella zona oscura dello Stato, tuttora oggetto d'indagine da parte della magistratura, dove mafia, uomini delle istituzioni ed esponenti della politica hanno sempre patteggiato, fino ai giorni nostri.

Alcuni documenti del Foreign Office su Enrico Mattei sono stati trovati dal ricercatore Mario J. Cereghino negli Archivi nazionali britannici di Kew Gardens, a Londra, e sono consultabili presso l'Archivio Casarrubea di Partinico (Palermo).

6 commenti:

  1. Abbiamo subito la Grande Guerra, una grande esercitazione.
    Con la II guerra mondiale, organizzata a tavolino e pianificata per renderci definitivamente asserviti agli USA, è finita del tutto la nostra sovranità.
    Da dove ricominciamo?

    RispondiElimina
  2. Abbiamo subito la Grande Guerra, una grande esercitazione.
    Con la II guerra mondiale, organizzata a tavolino e pianificata per renderci definitivamente asserviti agli USA, è finita del tutto la nostra sovranità.
    Da dove ricominciamo, Gianni?

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  3. Da noi stessi e dalla nostra patria!

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  4. amo il mio paese e lo capisco sempre quando mi trovo all'estero e non vedo poi l'ora di tornarci. questo ha una giustificazione che è culturale. il mondo tutto è bello perchè è diverso, è giusto girare, evadere per conoscere ma poi alla fine ognuno si ritrova bene dove ha avuto i suoi natali. è una questione di identità e vale per tutti i popoli. altro che essere cosmopoliti per forza, cioè costretti da uno stato di necessità, cui il tuo paese l'italia ti costringe ad essere. per libera scelta ognuno vorrebbe vivere dove si sente a casa. è un'esigenza che comprende tutto quello che ci accompagna dalla nascita. nessuno discute che viaggiare sia positivo ma come libera scelta. rosa alba

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  5. noi siamo l'identità del nostro paese, della nostra cultura, del nostro modo di intendere la vita, dei nostri affetti. tutto questo deve indurci a difendere questi ideali di appartenenza. ma se scegliamo la fuga, lasciamo il nostro paese allo sbando, che è quello che vogliono. giovani cosmopoliti non per scelta ma per forza di cose. disoccupazione, sfiducia, alienazione da sè. resistere e soprattutto non perdere mai la fiducia, perchè non siamo soli . rosa alba

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