15.10.13

VAJONT: UNA STRAGE DIMENTICATA





di Gianni Lannes

Il Vajont è forse la madre inascoltata di tante tragedie annunciate in Italia. Correva l’anno 1963, il 9 ottobre per la precisione: prima di Stava e Tesero, ma con la stessa avidità. 



Alle 22 e 39 minuti, dopo parecchi avvertimenti inascoltati, il monte Toc, risentito per il suo equilibrio geologico intaccato dal sedicente progresso umano, lasciò scivolare nella più avveniristica diga d’Europa, 260 milioni di metri cubi di roccia. L’onda d’urto - 50 milioni di metri cubi di fango e acqua - investì Erto, Casso, Villanuova, Rivalta, Longarone. Risultato: 2000 morti. 




Di quel crimine di Stato dettato dall'avidità capitalistica, restano una chiesetta, qualche sasso con il nome dei caduti, e lei, la diga inutile, a futura memoria. Un po’ più lontano, nelle aule dei tribunali, giacciono le grottesche montagne di carta delle inchieste, che - un trentennio più tardi - hanno portato ai miseri risarcimenti. Ci sono persino dei colpevoli: due. Ma in galera ci sono rimasti solo pochi mesi. Il resto è scandalo. 




Così nasce la diga del Vajont, già sotto il fascismo, su impulso affaristico del conte Volpi: c’è l’entusiastico annuncio dell’opera faraonica che porta lo sviluppo; c’è la gente che sogna ricchezza e benessere; c’è la spinta del governo che sta privatizzando l’energia elettrica e vuole impianti d’avanguardia; e poi ci sono gli spregiudicati manager e i supertecnici della Sade. Quando finiscono di costruirla è il 1959. Ma già al momento di cominciare aleggiano sull’impianto segnali sinistri: indagini geologiche e prove tecniche finiscono insabbiate. Geologi e ingegneri disinteressati giurano che il monte Toc non reggerà per molto. Gli alberi camminano ma gli esperti di regime non vedono, non sentono e non parlano. A tenere desta l’attenzione è la coraggiosa giornalista Tina Merlin, che denuncia in continuazione  i pericoli. La società costruttrice (Sade) la querelerà per “divulgazione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico”: il processo le darà ragione, ma nessuno ne trarrà le opportune conseguenze. Quattro ore prima che la strage di Stato si compia, l’ingegnere capo pronuncerà  al telefono la frase chiave di questa vicenda: “Che Dio ce la mandi buona…”. Ma l’Onnipotente non c’entra nulla. Gli uomini raccolgono quello che seminano.




Dopo le vittime innocenti, la storia del Vajont offre anche lo spettacolo dell’inchiesta col magistrato lasciato solo, con la Cassazione che ad un certo punto gli sfila il lavoro e lo trasferisce a L’Aquila “per legittima suspicione”. Fa impressione la contabilizzazione del lutto umano sulle carte del ministero degli Interni: “Per il padre 1 milione, la madre 800 mila lire, il primo figlio 600 mila e gli altri  400 mila”. Vajont, oggi è tutto chiaro. Peccato che quella lezione non sia servita a nulla.  




 Il Vajont è solo un segno, una ferita su una montagna di un Vajont molto più grande e che riguarda ognuno di noi. Il presunto "progresso" non è stato arrestato, giungendo a noi. Chernobyl, un altro Vajont, Fukushima un Vajont molto più grande e non facciamo nulla di concreto, come sempre, niente per evitarli, anzi, nascondiamo la polvere (radioattiva) sotto al tappeto, o la getttiamo direttamente in mare, soprattutto in Italia.

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