Crimini contro l’umanità ad un soffio dalla catastrofe
ecologica: proibite, vietate, bandite, sepolte, sommerse, ignorate, sconosciute
e dimenticate. La colonia Italia è circondata da un mare di bombe alleate che
disperdono in acqua il loro micidiale contenuto. Armi per lo sterminio di
massa, che uccidono senza dare nell’occhio a distanza di generazioni. Un’altra
pagina di verità negata. E nessuna traccia sui libri di storia. Le navi
nordamericane cariche di iprite affondate nel 1943 e nel ’45 a Bari, gli
arsenali gettati sempre dagli alleati anglo-americani nel Golfo di Manfredonia,
nel Golfo di Napoli e dinanzi all’isola di Ischia, e poi le testate chimiche
inabissate dai soldati tedeschi tra Fano e Pesaro.
Ma ci sono anche ordigni NATO che pullulano nell’Adriatico
e nel Tirreno, sepolti dall’oblio. A colpire sono i numeri: più di un milione
di armi speciali, ovvero a carica non convenzionale disseminate attorno alle
coste del belpaese. C’era una volta un segreto di Stati alleati che hanno
affondato nei mari d’Italia montagne di ordigni speciali, chimici e
radioattivi. Le conseguenze ambientali e sanitarie? Scoppi ad orologeria ed
effetti collaterali.
L’ignara popolazione italiana fa i conti con l’eredità dei
gas a stelle e strisce, proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925 e dalla
Convenzione di Parigi del 1993.
Anche nelle aree marine protette - soltanto in teoria -
giace un arsenale inesploso da far gola a qualsiasi terrorista: siluri,
missili, mine, bombe, razzi, granate, cariche di profondità, proiettili. Uno
spettro a stelle e strisce è scivolato nell’acqua, è entrato nell’aria, ha
invaso la vita con i suoi tentacoli mortali. Il segreto e l’omertà
istituzionale hanno garantito il disastro: i pescatori l’hanno appreso sulla
loro pelle, mentre i nostrani governi eterodiretti fanno sempre finta di
niente, eppure sapevano tutto fin dall’inizio, almeno dagli esordi della
Repubblica. Quanto all’Unione Europea, in punta di diritto, non fa valere le
sue stesse direttive pur essendo stata investita direttamente e in più
occasioni.
I terminali esplosivi della macchina bellica straniera
riaccesa negli anni ’90, durante la guerra contro la Jugoslavia, giacciono sui
fondali dell’Adriatico e del Tirreno, perfino nel lago di Garda. Questa
colossale discarica sottomarina ha liberato i suoi spettri letali. E la gente
inconsapevole ne paga le conseguenze. Gli indicatori biologici pur ignorati
dalle istituzioni deputate alla salvaguardia ambientale, parlano chiaro da
stagioni non sospette. Il Mediterraneo è in agonia: testimone della guerra
balcanica e custode degli orrori, risalenti all’ultimo conflitto planetario.
Questo antico mare è diventato un mortale buco nero che assedia lo Stivale.
Torniamo al passato mai tramontato. Siamo nel Sud
dell’Italia, in piena seconda guerra mondiale: corre il 2 dicembre del 1943 e
alle 19:25 la gente di Bari è intenta a terminare la giornata, ignara che, di
lì a poco, il porto, zeppo di navi alleate imbottite di armamenti e munizioni,
salterà in aria. L’autorità portuale è sotto il comando inglese, che ritiene
assurdo un attacco della Luftwaffe. Invece, 105 bombardieri JU-88 Junker della
2a Luftflotte del feldmaresciallo Wolfram von Richtofen bombardano a tappeto
proprio il porto. 17 saranno le navi affondate. Quello di Bari è conosciuto
come il peggior disastro navale della seconda guerra mondiale, dopo l’attacco
di Pearl Harbor, in cui le navi demolite furono parimenti 17. Ma con una
fondamentale differenza: nel Pacifico non c’era la ‘John Harvey’, nave battente
bandiera statunitense che trasportava un carico segreto: migliaia di bombe
all’iprite (1.350 tonnellate) e non era presente la ‘John Motley’ carica di
acidi, dicono le carte ingiallite. L’iprite è un gas venefico che a contatto
con la pelle mangia letteralmente i tessuti e provoca bolle, vesciche, ustioni,
piaghe talmente gravi da portare alla morte. L’iprite si mischia alla nafta
incendiata che galleggia sull’acqua e il fumo che ne scaturisce è un potente
veleno. Allora le vittime accertate, fra militari e civili, furono più di
2.000. Per la gente comune non ci sarà spazio neanche per cure sommarie, e
saranno abbandonati al loro dimenticato destino. Nel 1925, con il trattato di
Ginevra, la comunità internazionale, considerati gli effetti devastanti ne
vietò l’uso, ma non la produzione; era previsto, infatti, il diritto di
rappresaglia con iprite in caso di utilizzo per primo dello stesso da parte del
nemico. Così gli Alleati mantennero il segreto sulla presenza della potente
arma chimica, per non fornire pretesti ai tedeschi, impedendo le necessarie
cure e diagnosi alle migliaia di militari, ma soprattutto alla popolazione
civile, che vennero a contatto con il micidiale gas. Ma la tragicità del fatto
non si esaurì con i decessi e le sofferenze di quanti si trovarono lì quel 2
dicembre 1943, il disastro chimico-ambientale era stato appena innescato.
Questo non solo grazie agli Alleati, ma anche all’Italia fascista dei Savoia
che non era stata da meno: il regime mussoliniano ha lavorato alacremente alla
produzione di armi chimiche e batteriologiche sperimentate in Etiopia e Libia.
Hitler, ai suoi soldati in ritirata, ordinò che una parte dell’arsenale chimico
dei Savoia fosse distrutto al largo di Pesaro, per impedire che gli Alleati
potessero impadronirsene. E questi ultimi affondarono il loro nelle acque di
Manfredonia, per evitare di riportarselo a casa. Altrettanto fecero a Ischia e
Napoli, medesimo copione sul litorale da Manfredonia a Brindisi. A Bari
nell’Archivio di Stato è possibile leggere i rapporti della locale Questura
alla voce “affondamenti segreti operati dagli inglesi nel 1945 – 46 a poca
distanza dalla costa pugliese”.
Dal 3 settembre 1943 l’Italia è una portaerei ad uso e
consumo di Washington, certifica l’armistizio corto di Cassibile con annesse
clausole ancora oggi segrete. Sorvolo a bassa quota di velivoli imbottiti di
ordigni radioattivi sulle aerovie civili del belpaese, transito e sosta di navi
e sommergibili a propulsione ed armamento nucleare, bombe di ogni genere che
sonnecchiano inesplose sui fondali marini e quando meno te l’aspetti affiorano
in superficie per andare a prendere la tintarella sulla battigia. Da subacqueo
mi sono imbattuto in un simile inferno dopo un’immersione a pochi metri di
profondità, particolarmente all’isola di Pianosa nell’arcipelago delle Tremiti.
Così da cittadino italiano ho deciso di realizzare una ricerca sul campo,
sicuramente non esaustiva ma almeno documentata. Ho raccolto prove ufficiali e
testimonianze dirette. Il giornalismo ha il compito fondamentale di controllare
il potere, qualunque potere, ma in Italia invece è al servizio proprio del
potere nonché dalle multinazionali del crimine. Ma vale ancora il principio
internazionale “chi inquina paga”? Tocca a Washington e Londra saldare il
conto, e a noi esigerlo adesso senza compromessi…
Fonte:
estratto dal Prologo al libro di Gianni Lannes, Bombe a…mare (Nexus Edizioni, 2018)