Carpino: tessitrici - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
di Gianni Lannes
Nutrivo briciole di primavera mentre gli anni Sessanta
cadevano agli sgoccioli. La casa dei miei genitori si
affacciava sorniona al primo piano, proprio alla fine del borgo, in una via
dell’arcangelo Michele. Il generale inverno portava d’incanto nuvole di neve, e
l’unico sollievo al freddo indomabile era il fuoco primordiale del camino. A
500 metri d’altitudine respiravo l’Adriatico, ma al contempo accarezzavo con lo
sguardo la Foresta Umbra. Dopo aver macinato interminabili partite di pallone,
elementari ricerche di tesori archeologici e canonici studi in loco, ho
intrapreso la carriera di esule per professione: prima studente all'università
lontana anni luce, come tanti
giovani forzati migranti di ieri e di oggi; poi, finalmente rapito dalla
passione per la scoperta del mondo. Per decenni ho valicato continenti avendo a
tracolla solo le bisacce del fotoreporter.
Ora scrivere della terra che ci ha generato è come parlare di tuo figlio o della donna che ami. Insomma, una magia in solitudine d’altri tempi. La prima cosa scontata che mi viene da dire è che il Gargano non è in Puglia, bensì nella montagna del sole, decisamente Venezia ma niente affatto Bari o Foggia. Una volta, addirittura, era un’isola di ruvida bellezza per via dell’impenetrabile isolamento che l’ha preservata a lungo dalle contaminazioni della retrograda e balbettante modernità. Eppure, nessuno ha toccato questo gioiello di Adria che scruta i Balcani, se non come un conquistatore, o un nemico, o un visitatore incomprensivo.
Il luogo comune dipinge un mondo primordiale sereno e
godereccio, ideale per vacanze e
villeggiature distensive. Ahimé, resta tagliato fuori da tale mito paradisiaco,
l’altro Gargano. Una realtà tradizionalmente subalterna e sofferente, priva di
una classe dirigente, dove tre quarti del sistema occupazionale sono
caratterizzati dall’assenza della più elementare tutela; dove imperversa il
lavoro nero, supersfruttato e precario, accanto a rendite di rapina. Il Gargano
fa notizia solo quando viene enfatizzato il cliché della sua diversità, scivola
invece nell’anonimato quando prevalgono le conferme della sua massiccia
omologazione ai dettami della mentalità dominante nell’italietta delle banane a
stelle e strisce, circondata dal superfluo e priva del necessario.
Pini d’Aleppo, querce, carrubi, ulivi, faggi, cielo a
perdifiato, pescherecci all’attracco, nasse che srotolano nel vento, zappatori
a dorso di mulo, ciucci e capre, pastori viandanti, contadini motorizzati e pescatori marchiati
dal tempo, guaritori e cacciatori, facciate scrostate di chiese e religiosità popolare, cupole e
campanili. Sono i punti fermi in un mondo che va all’aria, una terra martoriata
non poco. Le donne mostrano visi duri e sensuali, gli occhi smarriti e i
capelli danzanti. Qui dove Oriente e Occidente si mescolano con maestria,
dall’alba al tramonto, i gabbiani stridono mentre le barche lasciano sorrisi di
spuma tra i flutti. Così, appena ti distrai il maestrale ti trapassa con
l’incanto del Mediterraneo.
Se sarò stato troppo morbido e struggente lo avrò fatto per
amore, e se sarò stato troppo velenoso e iconoclasta sarà accaduto comunque per
eccessivo affetto, che a volte genera sarcasmo. Dovrei dimenticare per un
istante, un solo attimo, le coste sodomizzate dal cemento speculativo dell’Europa,
dello Stato tricolore, dell'Eni, della Regione e dei privati, nonché sorvolare sugli
scarichi fognari perenni, e a cielo aperto. Per chiacchierare sulla bellezza
dovrei lasciar da parte i morti ammazzati da assurde faide, il traffico
indisturbato di droga, e non dovrei guardare in faccia i marmocchi che
annaspano, e poi appena sbocciati all’adolescenza se ne vanno altrove, per
tentare di farcela, pur di non affondare nella rassegnazione dilagante. Una
volta tra Vieste e Peschici, fino a Rodi Garganico, c’erano baie che avevano
tutt’intorno boschi di leccio impenetrabili agli umani. Le pinete si
arrampicavano su dolci colline e si tramutavano negli agrumeti. Così era davvero
straordinario accarezzare il bianco della sabbia, il blu cobalto del mare, dove
sgorgavano purissime acque sorgive e il verde abbacinante dei manti arborei.
Poi, in virtù delle singolari distrazioni istituzionali, gli sciacalli,
indisturbati, a più riprese, hanno dato in pasto alle fiamme quei polmoni verdi; adesso
resistono all'ultima spiaggia soltanto l’acqua e la sabbia, dove però già
incombono le trivelle petrolifere e gli impianti industriali eolici piombati
dall’estero con il beneplacito di Stato.
Osservo i tentacoli dei polpi dinanzi a me; vedo le murene
che si nascondono timide e assassine, nelle buche e da quegli anfratti
subacquei spuntano cernie impensabili. Il vento coglie sempre la vela e non mi
da fastidio perché è lieve. L’aria scioglie gli scirocchi e leviga la
salsedine. Alla marina i miei antichi amici hanno volti saccheggiati dal sole e tra
loro parlano una lingua arcaica.
Gianni , non fai che accrescere la mia voglia di ritorno…….alla Montagna del Sole.
RispondiEliminaLe radici sono la nostra identità, il legame con i nostri avi!
RispondiEliminaLucido, e nel contempo struggente e suggestivo ...
RispondiEliminaGrazie!
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