6.3.15

LO SPERONE D’ITALIA



 Carpino: tessitrici - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)


di Gianni Lannes

 

Nutrivo briciole di primavera mentre gli anni Sessanta cadevano agli sgoccioli. La casa dei miei genitori si affacciava sorniona al primo piano, proprio alla fine del borgo, in una via dell’arcangelo Michele. Il generale inverno portava d’incanto nuvole di neve, e l’unico sollievo al freddo indomabile era il fuoco primordiale del camino. A 500 metri d’altitudine respiravo l’Adriatico, ma al contempo accarezzavo con lo sguardo la Foresta Umbra. Dopo aver macinato interminabili partite di pallone, elementari ricerche di tesori archeologici e canonici studi in loco, ho intrapreso la carriera di esule per professione: prima studente all'università lontana anni luce, come tanti giovani forzati migranti di ieri e di oggi; poi, finalmente rapito dalla passione per la scoperta del mondo. Per decenni ho valicato continenti avendo a tracolla solo le bisacce del fotoreporter.


Ora scrivere della terra che ci ha generato è come parlare di tuo figlio o della donna che ami. Insomma, una magia in solitudine d’altri tempi. La prima cosa scontata che mi viene da dire è che il Gargano non è in Puglia, bensì nella montagna del sole, decisamente Venezia ma niente affatto Bari o Foggia. Una volta, addirittura, era un’isola di ruvida bellezza per via dell’impenetrabile isolamento che l’ha preservata a lungo dalle contaminazioni della retrograda e balbettante modernità. Eppure, nessuno ha toccato questo gioiello di Adria che scruta i Balcani, se non come un conquistatore, o un nemico, o un visitatore incomprensivo. 

Su questo lembo di storia si sono aggrappate mille leggende, a partire dall’approdo di Diomede dopo la guerra di Troia. Gente rude e criminali di importazione. Il sangue illirico, greco, teutonico, svevo, arabo, normanno, iberico, slavo e albanese si è raggrumato sul promontorio. Alcuni sono venuti a bivaccare da queste parti; molti, però, sono partiti con le pezze al culo, e mai più tornati. Progresso e sviluppo annunciato e promesso dal 1861 dopo aver stroncato la rivolta patriota dei briganti? Gli autoctoni emigrano ancora a testa bassa, mentre sovente i giovani sopravvivono consumando nel vuoto i giorni e l’intelligenza. Così sebbene sia legalmente assente nel belpaese la pena di morte, vige inesorabile la morte per pena. Unica eccezione è il Carpino Folk Festival, ideato da Rocco Draicchio, un musicista scomparso prematuramente in un incidente stradale. Un testimone, comunque, portato avanti con gran dignità dal fantasioso Luciano Castelluccia. Il Gargano, in ogni caso, va alla deriva in silenzio, con marcata rassegnazione, senso dolente di emarginazione, disagio, anche rabbia contro il nemico esterno. Ma il vero nemico è anche interno: un solido intreccio di mafie altolocate dai colletti biancastri, di politicume d’accatto e d’affari consumati sulla pelle dei nativi. Un potentato onnipervadente che controlla pubbliche amministrazioni, banche, imprese, consorzi e si riproduce nelle articolazioni statali e regionali. In altri termini, un sistema perverso che non ha mai realizzato il bene comune, ma solo l’umiliante sentiero dell’asservimento individuale, e che ha consentito alla sgangherata gerarchia dominante per conto terzi, di rastrellare consensi anche tra i più diseredati.

Il luogo comune dipinge un mondo primordiale sereno e godereccio, ideale per  vacanze e villeggiature distensive. Ahimé, resta tagliato fuori da tale mito paradisiaco, l’altro Gargano. Una realtà tradizionalmente subalterna e sofferente, priva di una classe dirigente, dove tre quarti del sistema occupazionale sono caratterizzati dall’assenza della più elementare tutela; dove imperversa il lavoro nero, supersfruttato e precario, accanto a rendite di rapina. Il Gargano fa notizia solo quando viene enfatizzato il cliché della sua diversità, scivola invece nell’anonimato quando prevalgono le conferme della sua massiccia omologazione ai dettami della mentalità dominante nell’italietta delle banane a stelle e strisce, circondata dal superfluo e priva del necessario.

Pini d’Aleppo, querce, carrubi, ulivi, faggi, cielo a perdifiato, pescherecci all’attracco, nasse che srotolano nel vento, zappatori a dorso di mulo, ciucci e capre, pastori viandanti, contadini motorizzati e pescatori marchiati dal tempo, guaritori e cacciatori, facciate scrostate di chiese e religiosità popolare, cupole e campanili. Sono i punti fermi in un mondo che va all’aria, una terra martoriata non poco. Le donne mostrano visi duri e sensuali, gli occhi smarriti e i capelli danzanti. Qui dove Oriente e Occidente si mescolano con maestria, dall’alba al tramonto, i gabbiani stridono mentre le barche lasciano sorrisi di spuma tra i flutti. Così, appena ti distrai il maestrale ti trapassa con l’incanto del Mediterraneo.

Se sarò stato troppo morbido e struggente lo avrò fatto per amore, e se sarò stato troppo velenoso e iconoclasta sarà accaduto comunque per eccessivo affetto, che a volte genera sarcasmo. Dovrei dimenticare per un istante, un solo attimo, le coste sodomizzate dal cemento speculativo dell’Europa, dello Stato tricolore, dell'Eni, della Regione e dei privati, nonché sorvolare sugli scarichi fognari perenni, e a cielo aperto. Per chiacchierare sulla bellezza dovrei lasciar da parte i morti ammazzati da assurde faide, il traffico indisturbato di droga, e non dovrei guardare in faccia i marmocchi che annaspano, e poi appena sbocciati all’adolescenza se ne vanno altrove, per tentare di farcela, pur di non affondare nella rassegnazione dilagante. Una volta tra Vieste e Peschici, fino a Rodi Garganico, c’erano baie che avevano tutt’intorno boschi di leccio impenetrabili agli umani. Le pinete si arrampicavano su dolci colline e si tramutavano negli agrumeti. Così era davvero straordinario accarezzare il bianco della sabbia, il blu cobalto del mare, dove sgorgavano purissime acque sorgive e il verde abbacinante dei manti arborei. Poi, in virtù delle singolari distrazioni istituzionali, gli sciacalli, indisturbati, a più riprese, hanno dato in pasto alle fiamme quei polmoni verdi; adesso resistono all'ultima spiaggia soltanto l’acqua e la sabbia, dove però già incombono le trivelle petrolifere e gli impianti industriali eolici piombati dall’estero con il beneplacito di Stato.

Osservo i tentacoli dei polpi dinanzi a me; vedo le murene che si nascondono timide e assassine, nelle buche e da quegli anfratti subacquei spuntano cernie impensabili. Il vento coglie sempre la vela e non mi da fastidio perché è lieve. L’aria scioglie gli scirocchi e leviga la salsedine. Alla marina i miei antichi amici hanno volti saccheggiati dal sole e tra loro parlano una lingua arcaica.

4 commenti:

  1. Gianni , non fai che accrescere la mia voglia di ritorno…….alla Montagna del Sole.

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  2. Le radici sono la nostra identità, il legame con i nostri avi!

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  3. Anonimo9/06/2015

    Lucido, e nel contempo struggente e suggestivo ...

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