Enrico Mattei |
di Gianni Lannes
Mezzo secolo fa, ma secondo le coordinate
geopolitiche è adesso. 27 ottobre 1962, ore 18 e 57 minuti, secondo più secondo
meno. Sembra ieri, ma è oggi, e incombe l’attualità: gas, petrolio, terzo
mondo, politica internazionale, indipendenza, sovranità nazionale, nuovo ordine
mondiale.
C’è un aereo - un Morane Saulnier 760 Paris II - che
sta volando da Catania a Milano. A bordo ci sono tre passeggeri: Enrico Mattei,
presidente della più importante agenzia petrolifera italiana, quella statale, l’esperto
pilota Irnerio Bertuzzi, e il giornalista William McHale, capo delle redazione
romana delle riviste Time e Life.
Ore 18 e 54 minuti: fra poco più di 3 minuti saranno
morti. Ore 18 e 55 minuti il velivolo è in rotta con il radiofaro di Linate. Il
comandante Bertuzzi comunica con la torre di controllo. India Papa Alfa annuncia
sono a duemila piedi. Ore 18, 56 minuti e 30 secondi: l’aereo sta compiendo la
manovra d’atterraggio. Si apre il carrello e scoppia un ordigno. Il piccolo
aeroplano si schianta nella campagna di Bascapè.
C’è un testimone oculare: il contadino Mario Ronchi, che però, su pressioni
dei vertici dell’Eni al momento opportuno cambia versione. Nell’archivio della
Rai c’è addirittura un’intervista a caldo di Ronchi, dove è stato cancellato
l’audio nel momento in cui Ronchi racconta di aver visto l’esplosione in volo.
Incombe Eugenio Cefis, vero capo della P2, come aveva intuito il giornalista Mauro De Mauro (scomparso mercoledi 16
settembre 1970 dopo le 21 a Palermo, e mai più ritrovato) nonché Pier Paolo Pasolini, assassinato su ordine degli stessi mandanti il 2 novembre 1975, mentre sta ultimando il romanzo (saggio) Petrolio. Cefis era stato
cacciato via dall’Eni proprio da Mattei.
L’inchiesta è condotta dalla Procura della Repubblica
di Pavia e dal generale Ercole Savi per conto dell’Aeronautica Militare - su
richiesta dell’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti - che archiviano il caso nel 1966 come incidente.
Secondo questa ridicola ricostruzione, senza uno straccio di prove, il pilota
avrebbe perso il controllo del velivolo.
Le indagini saranno riaperte a Pavia dal pubblico ministero Vincenzo Calìa nel 1994, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta. Il nuovo accertamento giudiziario rileva la presenza di tracce di esplosivo sul relitto e sui resti umani delle vittime. Negli atti giudiziari (procedimento penale numero 349/95, pagina 129) è scritto che:
«l’indagine tecnica, confortata dalle prove orali e
documentali raccolte, in assenza di evidenze contrarie, permette di ritenere
inequivocabilmente provato che (l’aereo sul quale viaggiava Mattei, ndr) è
precipitato a seguito di un’esplosione limitata, non distruttiva, verificatasi
all’interno del velivolo».
Secondo il magistrato in base al rapporto della
Scientifica, Enrico Mattei sarebbe stato ucciso con una bomba a bordo
dell’aereo in fase di atterraggio. Nonostante le evidenze, compresa la presenza
dei servizi segreti e la manovalanza di Cosa Nostra, il giudice è costretto a
richiedere l’archiviazione del procedimento nel 2005, sebbene abbia
stabilito che il Morane Saulnier della Snam partito dall’aeroporto di Catania,
su cui viaggiava il presidente dell’Eni, fu sabotato.
Le indagini di Pavia, scaturite precisamente dalle rivelazioni
di Tommaso Buscetta e di un pentito della “Stidda” di Gela, Gaetano Iannì,
hanno stabilito un punto fermo.
«Deve ritenersi…acquisita la prova che l’aereo a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William Mc Hale e Irnerio Bertuzzi venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962», ha scritto il pubblico ministero Calìa.
«L’indagine tecnica confortata dalle testimonianze
orali e dalle prove documentali…ha infatti permesso di ritenere
inequivocabilmente provato che l’I-Snap (nome in codice dell’aereo, ndr)
precipitò a seguito di un’esplosione limitata, non distruttiva, verificatasi
all’interno del velivolo».
E ancora:
«Come è già stato dimostrato il mezzo utilizzato fu
una limitata carica esplosiva probabilmente innescata dal comando che abbassava
il carrello».
La programmazione e l’esecuzione dell’attentato
furono complesse e coinvolsero, argomenta Calìa, «…uomini inseriti nello stesso
ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non
di secondo piano. Tale coinvolgimento trova conferma nei depistaggi, nelle
manipolazioni, nelle soppressioni di prove e di documenti, nelle pressioni,
nelle minacce e nell’assoluta mancanza, in ogni archivio, di qualsiasi
documento relativo alle indagini e agli accertamenti sulla morte di uno dei
personaggi più eminenti nel quadro economico e politico dell’epoca».
E più avanti:
«E’ facile arguire che tale imponente attività,
protrattasi nel tempo, prima per la preparazione e l’esecuzione del delitto e
poi per disinformare e depistare, non può essere ascritta…esclusivamente a
gruppi criminali, mafiosi, economici, italiani e stranieri, a “sette […o
singole] sorelle” o servizi segreti di altri Paesi, se non con l’appoggio e la
fattiva collaborazione…di persone e strutture profondamente radicate nelle
nostre istituzioni e nello stesso ente di Stato petrolifero, che hanno
conseguito ordini o consigli, deliberato autonomamente o col consenso e il
sostegno di interessi coincidenti, ma che, comunque, da quel delitto hanno conseguito
diretti vantaggi».
Ha concluso il magistrato Calìa:
«Le prove orali documentali e logiche raccolte…non
permettono l’individuazione degli esecutori materiali né, per quanto concerne i
mandanti, possono condurre oltre i sospetti e le illazioni…di per sé inadeguati
non soltanto a sostenere richieste di rinvio a giudizio, ma anche a
giustificare l’iscrizione di singoli nominativi sul registro degli indagati».
Delitto, anzi strage in cerca d’autore. Così l’accusa chiuse il
caso, chiedendo e ottenendo dal giudice l’archiviazione delle indagini. Una
scelta a dir poco incongruente con le risultanze, in base all’assunto che se
crimine c’è dev’esservi anche un criminale (o più di uno), che l’abbia commesso.
Infatti, le perizie sui frammenti metallici che
furono estratti dai resti anatomici di Mattei e Bertuzzi dopo la loro
esumazione e le analisi sulle viti di un
piccolo strumento fissato al cruscotto dell’areo, l’”indicatore triplo”, che il
capo del magazzino centrale della Snam aveva portato a casa e conservato,
permisero di rilevare su questi oggetti tracce riconducibili a un’esplosione
provocata da un ordigno di qualche decina di grammi forse nascosto nella parte
sinistra della cabina di pilotaggio, dov’era ai comandi Bertuzzi. Il magistrato
precisò che la carica di esplosivo era collegata all’interruttore di comando
dei carrelli, che il pilota aveva già provveduto ad azionare dopo l’ultima
comunicazione con la torre di controllo di Linate, alle 18,57. L’esplosione
mise fuori uso la strumentazione di bordo, frantumò il tettuccio, il parabrezza,
i finestrini del Morane Saulnier, stordì il pilota e i passeggeri.
Il velivolo precipitò su un campo allagato dalle
piogge, conficcandosi nel terreno dopo una strisciata di una decina di metri.
La maggior parte dei rottami con i due reattori furono trovati interrati nella
buca che l’aereo aveva scavato nel violentissimo impatto con il suolo fangoso.
Decine di persone udirono il rombo forte e anomalo di un aereo che volava a
bassissima quota, ad alzare gli occhi e a scorgere un bagliore improvviso nel
cielo, seguito da una pioggia di particelle in fiamme.
Il primo a parlare di una palla di fuoco in cielo
che si frantumava in stelle filanti fu Mario Ronchi, un contadino che abitava
in una cascina in località Albaredo, a 300 metri dal punto d’impatto
dell’aereo. Ronchi rilasciò a caldo queste dichiarazioni a un giornalista
televisivo della Rai. Ma davanti alla commissione d’inchiesta ritrattò. Il
giudice Calìa appurò in seguito che l’agricoltore, in cambio del silenzio,
aveva goduto per tutti questi anni di benefici economici, tra cui l’assunzione
della figlia, Giovanna, per sedici anni in una società riconducibile a Cefis, la Pro.De. E scoprì che la parte
sonora del nastro che era stato utilizzato per le riprese della Rai risultava
cancellata proprio nel punto in cui Ronchi descriveva la dinamica
dell’accaduto. La verità emerse dall’esame labiale delle immagini video
nonostante l’agricoltore si ostinasse a negare, davanti al magistrato, ciò che
aveva visto quella sera.
Le testimonianze di quanti avevano visto ed erano
accorsi ad Albaredo indicarono in modo concorde circostanze che la commissione
ministeriale, presieduta dal generale dell’aeronautica Ercole Savi, aveva trascurate
o ignorate. A parte la conferma che la ruota sinistra dell’aereo era stata
ritrovata intatta a circa cento metri dal relitto, e che altri rottami giacevano a decine di metri dal corpo dell’aereo, quasi tutti i testimoni
riferirono di aver visto brandelli di carne umana e piccoli parti incandescenti
o fuse del velivolo, ancora fumanti, sparse nel raggio di 300-400 metri dal
relitto, di avere visto altri brandelli di carne e i resti di un braccio
penzolare dalle cime dei pioppi e di aver notato che gli alberi intorno al
relitto non avevano preso fuoco a riprova del fatto che il Morane Saulnier non
esplose a terra, ma in volo e che le fiamme sulla coda dell’aereo, che
fuoriusciva dal terreno, erano alimentate dal kerosene riversatosi per la
rottura del serbatoio.
Il ritrovamento di resti umani e parti dell’aereo
così distanti dal relitto non si concilia con l’incidente. Quando l’aereo
precipita per un incidente, i corpi hanno la stessa velocità di caduta del
velivolo e il loro smembramento avviene con l’impatto. In questo caso, invece,
brandelli di carne sono stati ritrovati anche nei due reattori, come conferma
la relazione dei vigili del fuoco. I corpi arrivarono dunque a terra già
smembrati. Solo un’esplosione in aria può aver generato un movimento laterale
di pezzi dell’aereo e di resti umani. L’esplosione, infatti, provoca un cono di
frammenti, mentre la caduta non genera movimento laterale se non per fortuiti
rimbalzi che nel caso in questione non poterono esservi perché il velivolo
precipitò in un pantano di fango. Il carrello ritrovato lontano si sarebbe dovuto
infossare con la fusoliera. Ed è possibile individuare tracce di esplosivo a
oltre trent’anni di distanza perché i residui incombusti di un’esplosione sono
chimicamente molto stabili e resistono
persino per molti anni al lavaggio dell’acqua.
Le particelle incombuste avrebbero dovuto essere
ricercate, subito dopo il disastro, sui resti dell’aereo e sui frammenti
conficcati nei corpi, ma la commissione ministeriale aveva fretta di chiudere
l’inchiesta. Il direttore dell’Istituto di medicina legale, Tiziano Formaggio,
riferì che i resti anatomici di Mattei, Bertuzzi e Mc Hale furono portati in
laboratorio già “detersi” del fango e, siccome si dava per scontato
l’incidente, non furono fatti accertamenti per stabilire se la causa delle
lesioni fosse da attribuire a deflagrazione in volo. A questa versione aderì
anche l’allora presidente del consiglio Amintore Fanfani. Non solo: dal
Tribunale di Pavia, che chiuse la prima inchiesta sul disastro nel 1966 con un «non
luogo a procedere per insussistenza del fatto», la Snam ebbe restituiti su sua
richiesta i resti del velivolo, di cui si disfece dopo averli lavati e fusi.
Della vicenda di Mattei si sono occupati in molti,
forse troppi inconcludenti. Sono stati pubblicati decine di libri e centinaia
di articoli. Tutto in un unico calderone: processi, inchieste, indagini,
soprattutto chiacchiere morte e tanta confusione alimentata come sempre ad
arte, dai servizi di intelligence italiani e stranieri.
Singolare coincidenza. Il 25 ottobre 1962 il
Financial Times di Londra pubblica una corrispondenza da Roma dal sapore
inquietante. Il titolo è: “La scena
italiana. Il signor Mattei dovrà andarsene”? Il dettaglio potrebbe apparire
trascurabile se non fosse che, due giorni dopo, proprio il “signor Mattei”
perde la vita in un attentato.
Non a caso, proprio in quei mesi si era attivata la
produzione da parte britannica (Foreign Office e ministero dell’Energia) di una
serie di memorandum segreti che mettevano in risalto la pericolosità del
fondatore dell’Eni nei confronti degli interessi inglesi in Africa, Asia e
Medio Oriente. Rapporti elaborati nel luglio e agosto 1962.
Secondo sir Ashley Clarke, ambasciatore di sua maestà Windsor a Roma, nel 1957 Mattei aveva obiettivi molto chiari. Il primo, piuttosto ambizioso, era di “dominare la distribuzione dei prodotti petroliferi in Italia” mediante un controllo sulle fonti. Un modo per garantire al suo Paese scorte sufficienti di greggio, necessarie all’industria petrolifera nazionale e allo sviluppo industriale. Era questo un modo di continuare la Resistenza: sia perché le grandi compagnie petrolifere costituivano oggettivamente un impero destinato a influenzare la politica e la finanza su scala planetaria, sia perché nella sua tempra di uomo tutto d’un pezzo, la sua personale lotta contribuiva ai suoi ideali di patria e di dignità nazionale.
Ma l’obiettivo di evitare la dipendenza petrolifera
dai britannici e dagli americani non era un affare di poco conto. Anche per le
sue gravi implicazioni geopolitiche. Basti pensare che l’Italia rivestiva la
duplice funzione di centro nevralgico dell’anticomunismo in Europa e di
controllo delle risorse energetiche del Medio Oriente.
Una partita alla quale dal 1943-‘45 giocano da un lato grandi compagnie come la Standard Oil Company per gli Usa e la Shell per la Gran Bretagna con i suoi dominions in Medio Oriente, come in Iraq, Transgiordania ed Egitto; dall’altro, per l’Unione sovietica, una politica di espansione ideologica e di alleanza con gli Stati emergenti dalla lotta anticoloniale.
Una partita alla quale dal 1943-‘45 giocano da un lato grandi compagnie come la Standard Oil Company per gli Usa e la Shell per la Gran Bretagna con i suoi dominions in Medio Oriente, come in Iraq, Transgiordania ed Egitto; dall’altro, per l’Unione sovietica, una politica di espansione ideologica e di alleanza con gli Stati emergenti dalla lotta anticoloniale.
Nel 1962 il fondatore dell’Eni aveva allo studio
un’intesa con le major nordamericane, ed era in procinto di partire per gli Usa
per un incontro con il presidente, John
Fitzgerald Kennedy, e il conferimento di una laurea ad honorem alla
Stanford University.
Nell’ufficio del giudice Calìa sfilarono i vertici delle istituzioni: sottufficiali e alti ufficiali dei servizi, dei Carabinieri e dell’aeronautica militare; politicanti; i parenti di Mattei; i familiari di Mauro De Mauro, il giornalista del quotidiano “L’Ora” di Palermo scomparso mentre indagava sugli ultimi due giorni di Mattei in Sicilia; Eugenio Cefis, che dopo aver preso il posto di Mattei aveva scalato la Montedison e ne aveva assunto la presidenza, lasciando l’Eni; nonché personaggi come Vito Guarrasi, il potente e ambiguo avvocato palermitano, lontano cugino del banchiere Enrico Cuccia, che partecipò all’armistizio corto di Cassibile (3 settembre 1943).
Da qualsiasi lato lo si osservi, il delitto Mattei
appare come una delle prime e più efficaci
azioni di depistaggio e disinformazione nella storia della Repubblica. La
collaborazione di Cosa Nostra al sabotaggio del Morane Saulnier parcheggiato a
Fontanarossa sarebbe arrivata dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, che era molto vicino a Graziano Verzotto, il segretario regionale della Dc, responsabile
delle relazioni esterne dell’Eni nell’Isola, che sarebbe stato nominato
presidente dell’Ente minerario siciliano. Del resto senza la mafia non ci sarebbe stato lo sbarco in Sicilia dei cosiddetti "alleati". E non a caso all'articolo 16 del Trattato di Parigi (1947), ratificato in Italia nel 1952, è allegata una clausola segreta con un elenco di personaggi intoccabili dalle istituzioni italiane (ossia boss e avanzi di galera).
Mattei era restìo ad andare in Sicilia perché ne era
appena tornato. Le minacce di morte che aveva ricevuto - tra cui quelle dell’Oas, l’Organizzazione dell’armata
segreta, che perseguiva il mantenimento
della presenza coloniale francese in Algeria ed aveva attentato anche alla vita
di De Gaulle - lo avevano reso cauto. A persuaderlo a ripartire per Gagliano
Castelferrato, un Comune della provincia di Enna, e in cui l’Eni aveva trovato
metano, furono le insistenze del presidente della Regione siciliana, Giuseppe D’Angelo. Questi disse a
Mattei che la sua presenza a Gagliano era necessaria per calmare gli abitanti
insorti nel timore che l’Eni non volesse realizzare gli investimenti promessi.
Mentiva. Mattei ricevette un’accoglienza entusiastica, il suo discorso fu un
trionfo. In realtà, come appurerà De Mauro, incaricato dal regista Franco Rosi,
che stava girando “Il caso Mattei”,
di ricostruire gli ultimi giorni di vita del presidente, il viaggio in Sicilia
si rivelò una trappola mortale: servì ad attirare Mattei in trinacria, a
costringerlo a spostare l’aereo da Gela a Catania, dove qualcuno lo avrebbe
sabotato, e ad anticipare la partenza dalla sera al pomeriggio del 27 ottobre.
Invitato ripetutamente da Mattei ad accompagnarlo nel volo di ritorno a Milano,
D’Angelo oppose sempre uno strano rifiuto. Intorno a questo diniego si
arrovellò il coraggioso cronista De Mauro, sbobinando i discorsi di Gagliano.
Mattei aveva surrogato la politica estera del
Governo, scompaginato i giochi delle major petrolifere, disturbato gli
interessi degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica per le sue posizioni
terzomondiste e le sue aperture all’Urss e agli Stati mediorientali; esercitava
una forte influenza su chi avrebbe dovuto controllarlo, il ministro delle
Partecipazioni statali Giorgio Bo; aveva un forte ascendente su Giovanni
Gronchi, Presidente della Repubblica; aveva creato dal nulla la corrente
democristiana di base, guidata da Giovanni Marcora. E con la forza e il denaro
dell’Eni alimentava la politica, i partiti. E a differenza degli altri lo
dichiarava.
Per alcuni, le cause della morte di Mattei sarebbero
da ricercare in un accordo con l’Algeria, molto avversato dalle compagnie Usa,
che era in preparazione proprio in quei giorni e avrebbe dovuto portare alla
partecipazione italo-francese in alcuni giacimenti nel Sahara, alla costruzione
di una raffineria italo-algerina e a una consistente fornitura di metano che avrebbe
dovuto essere trasportata con un gasdotto via Gilbiterra, Spagna, Francia e
Italia. Quando il Morane Saulnier cadde dal cielo di Bascapè, scrisse Italo
Pietra, che aveva diretto “Il Giorno”, fondato da Mattei, mancavano otto giorni all’incontro di Algeri
e pochi mesi alla visita di pacificazione negli Usa.
Allora perché Mattei doveva morire? Anche dopo gli
accordi con l’Egitto e l’Iran, con cui puntava a spezzare il cartello delle 7
sorelle, Mattei era rimasto un petroliere senza petrolio. Il contratto di
approvvigionamento di greggio dall’Urss, economicamente vantaggioso per
l'Italia, che aveva sottoscritto nel 1958 urtando gli interessi di Washington,
aveva lo scopo di sopperire alla scarsa o nulla produzione di greggio nei Paesi
in cui il gruppo era riuscito a strappare concessioni minerarie. La storia
delle “sette sorelle” mandanti dell’omicidio regge, dunque, fino a un certo
punto, anche se è vero che Cefis, dopo la morte di Mattei, lasciò cadere
l’accordo con l’Algeria e firmò un’intesa con la Esso per una fornitura di gas
dalla Libia tramite navi metaniere. Nel 1962 la fase dello scontro frontale con
le major sembrava cessata.
L’intervista del 1958 a Cyrus Sulzberger, direttore e editore del “New York
Times”, in cui Mattei aveva detto di essere “antiamericano”, “contrario alla
Nato”, “neutralista”, era acqua passata. L’incontro con Kennedy, anche in vista
della costituzione del governo di centro-sinistra tra Dc e Psi, avrebbe messo
tutto a posto. L’ex presidente della Esso Italiana, Giuseppe Cazzaniga,
sostenne che nel 1962 tra le compagnie Usa e l’Eni “s’era cominciata a
intravedere un’evoluzione positiva dei rapporti” e che Agip e Esso sarebbero
potute entrare insieme “nelle raffinerie in Africa”.
Il magistrato di Pavia cercò anche di mettere a fuoco
la figura, assai controversa, di Eugenio Cefis. Come scrive in una nota agli
atti dell’inchiesta il giornalista Pietro Zullino (che per “Epoca” indagò a fondo sulla scomparsa di De
Mauro), Cefis aveva forti cointeressenze nelle raffinerie Sarom di Ravenna e
Mediterranea di Gaeta che rifornivano il sistema Nato per l’Europa del Sud e la
Sesta flotta e per questo contrastava il progetto di Mattei di trasformare
l’Alleanza Atlantica in un cliente dell’Eni. De Mauro potrebbe averlo scoperto
nel corso della sua inchiesta.
Cefis, quando Mattei morì, era già fuori dell’Eni.
Italo Mattei riferì che il fratello Enrico aveva scoperto il doppio gioco di
Cefis con i servizi americani e lo avrebbe costretto, per questo e per via di
certi altri affari, alle dimissioni dall’Eni. Cefis risultava legato ai servizi
italiani e amico del generale Giovanni Allavena, il comandante del Sifar
costretto a lasciare i servizi dopo la scoperta dei famosi fascicoli segreti .
In un documento del Sismi redatto su notizie «…acquisite il 20 settembre 1983
da professionisti molto vicini ad elementi iscritti alla loggia P2» - documento
anch’esso agli atti di Pavia - la loggia segreta Propaganda 2 risulterebbe «…fondata
da Eugenio Cefis che l’ha gestita - vi si legge - fino a quando è rimasto
presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è
subentrato il duo Ortolani-Gelli, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi
violenti contro uomini legati ad Andreotti con il quale si giunse ad un
armistizio per interessi comuni: lo scandalo dei petroli».
Nello stesso tempo, appunta Zullino, De Mauro potrebbe avere scoperto un'altra
storia su Guarrasi, che era consulente dell’Eni e di cui Mattei s’era servito
per sostenere nel 1958 il milazzismo, il governo regionale siciliano guidato da
Silvio Milazzo e sostenuto da Msi, Pci e Unione Siciliana Cristiano Sociale, il
partito nato da una scissione della Dc nell’Isola. L’avvocato Guarrasi, secondo
Zullino, aveva fornito alla mafia i piani di costruzione dell’impianto petrolchimico
dell’Anic di Gela e la mappa dei terreni su cui avrebbe dovuto essere edificato
lo stabilimento, consentendo a Cosa Nostra di acquistare le aree a poco prezzo
per rivenderle all’Eni con un guadagno consistente.
Il caso De Mauro scottava se è vero che il
giornalista aveva scoperto qualcosa di molto eclatante collegato alla morte di
Mattei. Nel novembre 1970, in una riunione tra i vertici dei servizi segreti e
i responsabili della polizia giudiziaria, che si svolse a Palermo, fu così
deciso l’”annacquamento” delle indagini. Alla riunione era presente il generale
Vito Miceli, succeduto il 18 ottobre all’ammiraglio Eugenio Henke al vertice dei servizi. Usò proprio il termine
“annacquamento” il commissario di polizia Boris
Giuliano nel riferire la circostanza. Giuliano indagava sul caso De Mauro
insieme a Bruno Contrada, poi divenuto numero tre del Sisde, ma fu ucciso dalla
mafia il 21 luglio 1979. L’anno dopo la scomparsa di De Mauro, nel maggio 1971,
era stato invece ammazzato il procuratore capo di Palermo, Pietro Scaglione, che aveva indagato su vari delitti di Cosa
Nostra, tra cui il rapimento De Mauro. Le Brigate
Rosse (eterodirette dall'estero, ma plasmate nello Stivale) provvederanno a eliminare il Procuratore generale di Genova Francesco Coco, che aveva indagato a
sua volta su De Mauro e Scaglione. E anche il boss Di Cristina viene tolto di mezzo dai corleonesi nel 1978, pochi
giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro,
dopo che aveva deciso di collaborare con le autorità di Polizia. Contrada invece ha scontato una condanna definitiva a
dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Va inoltre registrata la presenza di una pedina di
Gladio - Giulio Paver - tra le
guardie del corpo di Mattei nel periodo 1960-62. Coincidenza: una delle tre
persone che a Fontanarossa s’avvicinarono all’aereo della Snam, mentre Bertuzzi
si recava al bar per rispondere al telefono, si qualificò come capitano Grillo.
E - se è vero quanto scrive Nico Perrone nel suo “Obiettivo Mattei” -
“preziosi elementi informativi” sul presidente dell’Eni venivano trasferiti
alla Cia dal colonnello del Sifar Renzo Rocca, reclutatore per i gruppi “Stay
Behind” e “coordinatore di finanziamenti industriali americani e italiani per
combattere il comunismo”. Rocca, morto
in circostanze misteriose, teneva i rapporti con il capo della stazione Cia di
Roma Thomas Karamessines, che dopo
la fine di Mattei - scrive Perrone - fu
richiamato negli Usa per partecipare all’operazione coperta che portò
all’individuazione e all’uccisione in Bolivia di Ernesto Che Guevara.
«Chissà, forse l’abbattimento dell’aereo di Mattei
più di vent’anni fa è stato il primo gesto terroristico nel nostro Paese, il
primo atto della piaga che ci perseguita». Cosa volle dire Amintore Fanfani con questa dichiarazione nell’ottobre 1986 al
congresso dei partigiani cattolici? Difficile credere che gli fosse scappata di
bocca. Ma quando il pubblico ministero Calìa gli chiede cosa avesse inteso dire
aveva già perso la memoria. Fanfani doveva sapere molte cose sulla fine di
Mattei. Il 28 ottobre, il giorno dopo la sciagura, l’allora ministro
dell’interno Paolo Emilio Taviani chiama il presidente del Consiglio per
informarlo che sta facendosi strada l’ipotesi dell’incidente. E’ Taviani a
riferirlo al magistrato. Dopo di che è Fanfani a telefonare a Taviani. Il
ministro sta per riferirgli altri particolari sulla caduta dell’aereo, ma
Fanfani lo interrompe bruscamente
preoccupato della gravità della crisi di Cuba.
Il 16 ottobre 1962 Kennedy aveva ricevuto le riprese fotografiche di aerei spia americani che provavano la presenza di basi missilistiche sovietiche a Cuba. La strategia dell’Urss era di usare le basi cubane come merce di scambio per ottenere la rimozione dei missili nucleari Jupiter che gli Usa avevano installato in Turchia ed Italia (in Puglia a Poggiorsini sulla Murgia). La tensione tra le due superpotenze nucleari arrivò al punto che Kennedy aveva dato disposizioni per preparare l’invasione di Cuba. Il segretario di Stato, Dean Rusk, ammise che in quei giorni si fronteggiò la crisi più pericolosa mai vista tra Usa e Urss. Dichiarò Taviani: «La mattina del 28 ottobre 1962 siamo stati a due ore dalla guerra». In quel frangente era essenziale conoscere la posizione dell’Italia nel quadro dell’Alleanza Atlantica. E le idee neutraliste di Mattei, data l’influenza che egli esercitava sulla politica estera e sul Governo, rappresentavano un rischio.
Il 16 ottobre 1962 Kennedy aveva ricevuto le riprese fotografiche di aerei spia americani che provavano la presenza di basi missilistiche sovietiche a Cuba. La strategia dell’Urss era di usare le basi cubane come merce di scambio per ottenere la rimozione dei missili nucleari Jupiter che gli Usa avevano installato in Turchia ed Italia (in Puglia a Poggiorsini sulla Murgia). La tensione tra le due superpotenze nucleari arrivò al punto che Kennedy aveva dato disposizioni per preparare l’invasione di Cuba. Il segretario di Stato, Dean Rusk, ammise che in quei giorni si fronteggiò la crisi più pericolosa mai vista tra Usa e Urss. Dichiarò Taviani: «La mattina del 28 ottobre 1962 siamo stati a due ore dalla guerra». In quel frangente era essenziale conoscere la posizione dell’Italia nel quadro dell’Alleanza Atlantica. E le idee neutraliste di Mattei, data l’influenza che egli esercitava sulla politica estera e sul Governo, rappresentavano un rischio.
Enrico Mattei |
Chi era Mattei? Un grande uomo che aveva a cuore il
suo Paese ma anche il “Terzo mondo”. Nato il 29 aprile 1906 ad Acqualagna nelle
Marche da una famiglia non agiata, Mattei fu certamente una persona
straordinaria, dalla vita breve e intensa. Un gigante politico ucciso 51 anni
fa che stava realizzando il bene comune per l’Italia. Un temerario che richiama
la figura di Aldo Moro, al quale lo
lega il filo di una morte violenta e tragica, e quell’orgoglio personale e
nazionale che voleva fare dell’Italia un Paese autenticamente sovrano. Voleva
riscattare il nostro Paese dalla mediocrità (allora come oggi imperante) e
dall’emarginazione nello scenario mondiale.
Mattei aveva un sogno tutto italiano. Diceva che
“l’Italia aveva bisogno di lavorare, ma non di andare all’estero solo come dei
poveri migranti con la sola forza delle proprie braccia, bensì come degli
imprenditori con l’esperienza tecnica”, degna di un Paese all’avanguardia.
Amava l’Italia prima del Capitale, infatti, operava solo per l’interesse
nazionale, senza rendere conto ai vertici politici nazionali, che invece operavano a favore del proprio tornaconto e per soggetti terzi.
L’Italia sarebbe stata un Paese diverso se questo leader avesse sviluppato per intero il
suo potenziale ideale e operativo. Per dare al nostro Paese autonomia in campo
energetico, presupposto fondamentale della sovranità di ogni Stato che si
rispetti. Al contrario l’Italia è stata, dopo la sua morte, un Paese sempre più
al rimorchio da altre realtà nazionali dal punto di vista degli
approvvigionamenti energetici, ma purtroppo, non solo.
filmati e documenti:
Post scriptum
Non è possibile che su una questione che ha predeterminato
simili, anche solo eventuali e mai cercati/chiariti sviluppi si sia ancora
nella semplice ipotesi di mistero quando l'accertamento di simili fatti darebbe
immediatamente la spiegazione delle situazioni che solo in questo Stato sono
'incomprensibili. Viceversa, con queste spiegazioni non vi è soltanto un filo,
ma un solido cordone che evidenzia il perché di tante cose che con questa
logica perversa sono state fatte o non fatte e/o perchè fatte in un certo modo
'inspiegabile'. Se qualcuno finanziasse
un’accurata indagine giornalistica sarei disposto a individuare i veri
responsabili dell’attentato a Mattei! Ancora oggi mandanti ed esecutori
materiali restano impuniti. Quei criminali si annidano in quella zona oscura
dello Stato, tuttora oggetto d'indagine da parte della magistratura, dove
mafia, uomini delle istituzioni ed esponenti della politica hanno sempre
patteggiato, fino ai giorni nostri.
Alcuni documenti del Foreign Office su Enrico Mattei sono stati trovati dal ricercatore Mario J.
Cereghino negli Archivi nazionali britannici di Kew Gardens, a Londra, e
sono consultabili presso l'Archivio Casarrubea di Partinico (Palermo).
Un Vero Italico!
RispondiEliminaAbbiamo subito la Grande Guerra, una grande esercitazione.
RispondiEliminaCon la II guerra mondiale, organizzata a tavolino e pianificata per renderci definitivamente asserviti agli USA, è finita del tutto la nostra sovranità.
Da dove ricominciamo?
Abbiamo subito la Grande Guerra, una grande esercitazione.
RispondiEliminaCon la II guerra mondiale, organizzata a tavolino e pianificata per renderci definitivamente asserviti agli USA, è finita del tutto la nostra sovranità.
Da dove ricominciamo, Gianni?
Da noi stessi e dalla nostra patria!
RispondiEliminaamo il mio paese e lo capisco sempre quando mi trovo all'estero e non vedo poi l'ora di tornarci. questo ha una giustificazione che è culturale. il mondo tutto è bello perchè è diverso, è giusto girare, evadere per conoscere ma poi alla fine ognuno si ritrova bene dove ha avuto i suoi natali. è una questione di identità e vale per tutti i popoli. altro che essere cosmopoliti per forza, cioè costretti da uno stato di necessità, cui il tuo paese l'italia ti costringe ad essere. per libera scelta ognuno vorrebbe vivere dove si sente a casa. è un'esigenza che comprende tutto quello che ci accompagna dalla nascita. nessuno discute che viaggiare sia positivo ma come libera scelta. rosa alba
RispondiEliminanoi siamo l'identità del nostro paese, della nostra cultura, del nostro modo di intendere la vita, dei nostri affetti. tutto questo deve indurci a difendere questi ideali di appartenenza. ma se scegliamo la fuga, lasciamo il nostro paese allo sbando, che è quello che vogliono. giovani cosmopoliti non per scelta ma per forza di cose. disoccupazione, sfiducia, alienazione da sè. resistere e soprattutto non perdere mai la fiducia, perchè non siamo soli . rosa alba
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