il relitto del DC 9 Itavia: a Bologna nel museo della memoria |
di Gianni Lannes
Ma quale isola di Ustica. Il governo Cossiga coadiuvato dalla Nato e dallo Stato Maggiore della Difesa ha falsificato anche i dati geografici. Il depistaggio dello Stato italiano decollò istantaneamente. Il DC 9 dell'Itavia ammarò al largo di Gaeta, quasi sulla verticale della portaerei Saratoga della VI flotta USA. La parola d'ordine discesa dal superiore livello politico a quello sottostante militare, era disarmante: dovevano essere ripescati solo cadaveri. L'allora ministro della Difesa, tale Lelio Lagorio, era all'oscuro di queste oscure manovre? E perché non mosse un dito quando il collega ministro Rino Formica gli riferì del missile nell'immediatezza del fatto, su soffiata del generale Rana, a capo del Rai? Anche Giuliano Amato dovrebbe fornire qualche spiegazione in merito alla strage di Ustica.
Forse, non si poteva correre il rischio di trovare qualche sopravvissuto che avrebbe raccontato cosa era accaduto? E così mandarono in onda una lenta agonia, con soccorsi al rallentatore (da leggere con attenzione la deposizione del tenente colonnello Lippolis - responsabile dei soccorsi in prima battuta - interrogato dal collega Barale nell' allegato riservato della relazione Pisano). I centri radar della NATO (sistema Nadge), in particolare Licola, Marsala e Jacotenente, avevano registrato integralmente l'accadimento; ma poi furono distrutte quasi tutte le prove. Non c'era proprio nessun cono d'ombra.
La notte di quel remoto 27 giugno 1980, quando l'aereo proveniente da Bologna e diretto a Palermo, alcuni minuti dopo avere sorvolato l'isola di Ponza, interruppe improvvisamente le sue comunicazioni radio e sparì dagli schermi radar, i controllori di volo cercarono di determinare le coordinate corrispondenti agli ultimi segnali registrati, allo scopo di indirizzare le ricerche e i soccorsi; ma solo per modo di dire. Le tracce strumentali del DC9 erano mescolate ad una molteplicità di segnali che denotavano la presenza di alcuni velivoli militari vicini. Inizialmente, come si legge negli atti della Commissione parlamentare Gualtieri, l'ultimo «punto noto» del DC9 fu considerato il contatto radio con «Roma-Controllo» delle 20,57', riferibile alle coordinate geografiche 40°12'N, 13°01'E, quando il pilota comunicò di trovarsi al punto Alpha dell'aerovia Ambra 13, a un'altezza di 25.000 piedi (circa 7.620 m). In seguito, nel corso della notte, si decise di dare maggior credito alle ultime immagini radar generate dal transponder di bordo e registrate dal centro di Roma-Ciampino alle ore 20,59'45”, associabili alle coordinate 39°35'N, 13°04' E6. In seguito a più accurate stime, la posizione relativa all'ultimo segnale del transponder è stata ulteriormente ridefinita, spostandola una ventina di chilometri più a Nord, sicché essa risulta associata alle coordinate 39°43'N, 12°55' E7.
Forse, non si poteva correre il rischio di trovare qualche sopravvissuto che avrebbe raccontato cosa era accaduto? E così mandarono in onda una lenta agonia, con soccorsi al rallentatore (da leggere con attenzione la deposizione del tenente colonnello Lippolis - responsabile dei soccorsi in prima battuta - interrogato dal collega Barale nell' allegato riservato della relazione Pisano). I centri radar della NATO (sistema Nadge), in particolare Licola, Marsala e Jacotenente, avevano registrato integralmente l'accadimento; ma poi furono distrutte quasi tutte le prove. Non c'era proprio nessun cono d'ombra.
La notte di quel remoto 27 giugno 1980, quando l'aereo proveniente da Bologna e diretto a Palermo, alcuni minuti dopo avere sorvolato l'isola di Ponza, interruppe improvvisamente le sue comunicazioni radio e sparì dagli schermi radar, i controllori di volo cercarono di determinare le coordinate corrispondenti agli ultimi segnali registrati, allo scopo di indirizzare le ricerche e i soccorsi; ma solo per modo di dire. Le tracce strumentali del DC9 erano mescolate ad una molteplicità di segnali che denotavano la presenza di alcuni velivoli militari vicini. Inizialmente, come si legge negli atti della Commissione parlamentare Gualtieri, l'ultimo «punto noto» del DC9 fu considerato il contatto radio con «Roma-Controllo» delle 20,57', riferibile alle coordinate geografiche 40°12'N, 13°01'E, quando il pilota comunicò di trovarsi al punto Alpha dell'aerovia Ambra 13, a un'altezza di 25.000 piedi (circa 7.620 m). In seguito, nel corso della notte, si decise di dare maggior credito alle ultime immagini radar generate dal transponder di bordo e registrate dal centro di Roma-Ciampino alle ore 20,59'45”, associabili alle coordinate 39°35'N, 13°04' E6. In seguito a più accurate stime, la posizione relativa all'ultimo segnale del transponder è stata ulteriormente ridefinita, spostandola una ventina di chilometri più a Nord, sicché essa risulta associata alle coordinate 39°43'N, 12°55' E7.
La prima domanda che mi sono posto è se l'incertezza iniziale
sulla posizione in volo occupata dall'aereo di linea al momento del disastro possa aver
portato all'equivoco della sua localizzazione a Ustica o negli immediati dintorni.
La risposta è negativa. Infatti, se riportiamo su una carta geografica le
coordinate relative al contatto radio delle 20,57 e all'ultima battuta radar
delle 20,59' 45”, otteniamo un segmento di una sessantina di chilometri che rappresenta
la traccia degli ultimi due minuti e quarantacinque secondi di volo dell'aereo.
Tale segmento si colloca in una posizione
mediana rispetto alla congiungente Ponza-Ustica, in pieno Tirreno Centrale. Si può calcolare che l'estremità nord di questo segmento, quella
corrispondente alla comunicazione radio delle 20,57, presenta le seguenti
distanze geodetiche rispetto alle località di terraferma relativamente più
vicine:
- VENTOTENE, km 73
- PONZA, km 77
- ISCHIA, km 96
- CAPRI, km 110
- USTICA, km 167
L' estremità sud del segmento in esame, corrispondente all'ultimo
segnale radar delle 20,59 45” - verosimilmente il punto in cui l'aereo, dopo
essere stato colpito, subisce il blackout elettrico, interrompe i segnali radio
e scende verso il Tirreno - ha le seguenti distanze geodetiche
rispetto alle località relativamente più prossime:
-USTICA, km 116
-VENTOTENE, km 127
-PONZA, km 131
-ISCHIA, km 139
-CAPRI, km 144
Insomma, se un equivoco poteva sorgere all'inizio doveva essere
relativo all'ipotesi che l'aereo fosse precipitato molto più vicino a Ventotene
e a Ponza, che non Ustica. Superata la confusione iniziale, comunque, è apparso evidente
ai controllori di volo e all'apparato dei soccorsi che il disastro era avvenuto
almeno 115 chilometri a Nord dell'isola di Ustica, in una zona a metà strada fra le
isole Ponziane e Ustica. Da
questa consapevolezza non poteva certo nascere l'equivoco che il disastro si
fosse consumato nello spazio aereo sopra l’isola di Ustica. Oltre al punto in cui l'aereo discese nel Tirreno, ci sono
altre posizioni rilevanti da mettere bene a fuoco al fine di avere un quadro geografico
completo del disastro: quelle relative alla localizzazione dei relitti in mare.
Secondo le carte ufficiali gli elicotteri di soccorso decollarono a partire dalle 22, un'ora dopo
la scomparsa del velivolo; i mezzi navali salparono ancora più tardi, a partire
dalle 23,30. Nessuna delle missioni di ricognizione notturna ebbe esito
positivo. Eppure, dalle registrazioni radar della NATO, si evince che un velivolo militare si portò subito sul punto di ammaraggio del DC 9. E che addirittura un Atlantic Breguet italiano - (specializzato in particolare nella caccia notturna ai sommergibili, ovvero in grado di vedere anche al buio e di piazzare boe di segnalazione in mare) in attività addestrativa, sorvolò la zona di ammaraggio dell'I-Tigi, proveniente da Catania. Nave Proteo della Marina Militare, specializzata esclusivamente per il soccorso in mare non fu prontamente allertata. Nave Vittorio Veneto, che incrociava in quel tratto del Tirreno, unitamente ad altre numerose unità aeronavali della Nato e non, ebbe l'ordine di far subito rotta verso La Spezia senza prestare alcun soccorso.
Infatti, la prima localizzazione di alcuni rottami avvenne soltanto la mattina seguente, alle 7,12 (oltre dieci ore dopo il disastro) con l'avvistamento, da parte di un elicottero, di una macchia oleosa e di alcuni frammenti galleggianti, in una zona corrispondente alle coordinate 39°49'N, 12°55' E11. Poi intervenne l'Atlantic Breguet decollato da Cagliari al cui comando c'era il tenente di vascello Bonifacio.
Il tragico recupero di 42 salme intere - su nave Doria della Marina Militare - di un frammento anatomico
riconosciuto, di altri resti anatomici non identificabili, di parti dell'aereo
e degli effetti personali dei suoi occupanti, proseguì nelle ore e nei giorni
successivi, in una vasta area del Tirreno Centrale in cui i venti e le correnti
marine avevano, nel frattempo, sparpagliato quella congerie di reliquie. Il mare
non avrebbe mai più restituito i corpi dei 39 dispersi. Anche in questo caso i conti ufficiali non tornano. Infatti per le autorità tricolori sono state recuperate solo 38 salme e pezzi di cadaveri. Anche dando per buono questo numero inesatto per difetto di salme recuperate, furono eseguite solo alcune autopsie (sette su 38 cadaveri), addirittura incomplete e parziali, tant'è che a distanza di qualche anno ne furono rinnovate due (in particolare quella del signora Calderone) Perché? Si registrarono per caso anche degli annegamenti, che avrebbero denotato la sopravvivenza di qualcuno dopo l'impatto con il mare? Tutti i magistrati che si sono applicati al caso, senza uno straccio di prova medico-legale, hanno escluso questa più che probabile ipotesi. Un dato di raffronto: il 23 dicembre del 1978 precipitò un volo di linea nelle acque in quella stagione gelide del mare di Sicilia, nei pressi di Palermo e si salvarono ben 21 persone, mentre perirono altre 108.
Sulla base degli elenchi dei «relitti e reperti» e della
loro localizzazione geografica riportati nella Sentenza-Ordinanza del giudice
Rosario Priore (datata 31 agosto 1999), ho potuto ricostruire l'area in cui risultava concentrata la
maggior parte dei resti galleggianti al momento del ritrovamento, nei due giorni
successivi al disastro. Si tratta di uno specchio di mare delimitato dalle latitudini
geografiche 39° 50'N – 39° 30'N e dalle longitudini 12° 50'E – 13° 10'E. A
conti fatti, un rettangolo di circa 28 x 37 km (la dimensione maggiore è lungo
il meridiano) il cui punto centrale cade alcuni km a Sud-Est rispetto al punto
dell'ultimo segnale radar; quindi in accordo con la dispersione operata dai venti
prevalenti dal Nord-Ovest. Altri rottami furono recuperati al di fuori
dell'area di massima concentrazione.
Si può calcolare che l'area di maggiore concentrazione dei
resti galleggianti del DC9 si trovava circa 110 chilometri a Nord di Ustica: una distanza
che non permette di affermare che i rottami dell'aereo furono recuperati «nelle
acque» dell'isola.
Molto più tempo fu necessario per rintracciare e ripescare,
da un abisso del Mar Tirreno a circa 3.500 metri di profondità, i rottami
affondati del DC9. A causa di presunte difficoltà tecniche ed economiche, trascorsero tra 7 e 11 anni dal
recupero:
la prima missione effettuata nel biennio 1987-88 a cura della compagnia francese Ifremer (legata secondo l'ammiraglio Fulvio Martini ai servizi segreti di Parigi);
la seconda nel 1991 affidata alla britannica Wimpol. Furono spesi complessivamente dallo Stato, quasi 28 miliardi delle vecchie lirette. Le principali parti del
relitto furono ritrovate in una zona delimitata dai paralleli 39° 41' N - 39°
43' N e dai meridiani 13°01' E - 13°04' E. Erano parti della fusoliera e della cabina di pilotaggio, i
due reattori, le ali, i carrelli, la porta principale dell’aeromobile, la porta
del vano cargo anteriore, la coda con i relativi piani alari, le due scatole nere e
il registratore delle comunicazioni radio, bagagli vari.
A conti fatti, l'area del ritrovamento occupa una trentina di chilometri quadrati (ovvero 5 x 6 km, con il lato maggiore lungo il
meridiano); la parte centrale si trova una dozzina di km a Est rispetto alla
posizione dell'ultimo contatto radar. Anche in questo caso è facile calcolare la
distanza fra l'area di giacitura dei pezzi in fondo al mare e l'isola di Ustica:
circa 115 chilometri. Una distanza tale da non consentire di attribuire geograficamente
all'isola il luogo di inabissamento del velivolo. Il DC9
non arrivò a volare sopra il cielo di Ustica perché fu abbattuto oltre 115 chilometri a
settentrione dell'isola. Inoltre, fu
ritrovato tra i rottami del DC 9 anche il serbatoio supplementare di un
caccia Usa. Ed in seguito, nel 2000 un peschereccio di Gaeta ripescò pezzi consistenti di un Phantom.
La nave Bannock in missione scientifica riceveva via radio, dal comando marittimo, le
istruzioni sulla rotta da seguire, più o meno verso Nord, per raggiungere il
luogo del disastro. Il professor Paolo Colantoni
rimase in plancia, accanto al comandante, a scrutare le onde, per ore, senza
rilevare alcuna traccia di rottami né di vita. Dopo oltre tre ore di
navigazione, quando sembrava che la nave fosse ormai vicina al presunto luogo
di caduta dell'aereo, arrivò, sempre via radio, un comando inaspettato:
abbandonare la zona e volgere la prua a Ovest, verso la Sardegna. A Colantoni
suonò molto strano: il professore, nelle testimonianze rese ai giudici su
quella drammatica avventura, ha avanzato il sospetto che la Bannock,
all'inizio, sia stata volutamente allontanata dal luogo degli eventi. Colantoni
non poté fare a meno di collegare quell'improvvisa deviazione con quanto era
avvenuto il giorno prima, durante il viaggio di avvicinamento della Bannock a
Ustica, quando aveva chiesto alle autorità marittime, tramite il comandante, il
permesso di sostare in pieno Tirreno per un'osservazione scientifica dei
fondali, ma aveva ricevuto un diniego con la motivazione che l'avidità di
ricerca scientifica avrebbe interferito con altre operazioni in corso. Quali
operazioni? Col senno di poi, le operazioni militari che precedettero l'abbattimento
del DC9!
Alle prime luci del giorno la Bannock fu dirottata di nuovo,
stavolta verso Nord-Est, in un tratto di mare prossimo alla rotta del traghetto
Civitavecchia-Olbia in cui erano stati segnalati alcuni rottami dell'aereo. La
ricerca ebbe esito positivo: c'era un relitto che galleggiava. Quando lo issarono
a bordo si resero conto che era la parte finale del cono di coda del DC9. Dopo il recupero del frammento, arrivò un'altra indicazione
di rotta che meravigliò l'equipaggio della Bannock: tornare al punto da cui
erano stati allontanati la notte precedente. E questa volta si presentò ai loro
occhi lo spettacolo straziante dei cadaveri che galleggiavano in mezzo ai rottami
dell'aereo. Ma ormai nella zona erano confluiti numerosi mezzi di soccorso,
molto meglio attrezzati della Bannock per il recupero di corpi e materiali;
così la nave oceanografica ebbe il permesso di rientrare a Ustica, cosa che
fece in giornata.
Il giorno dopo la Bannock andò ad ormeggiarsi nel porto di Napoli, dove il cono di coda fu consegnato
alla Marina Militare. Colantoni fu poi convocato a più riprese dal giudice
istruttore Priore, sia per riferire questa storia, sia per offrire la sua
consulenza di sedimentologo, diversi anni dopo, quando furono localizzati negli
abissi del Tirreno gli altri pezzi del DC9. Il professore è fra quanti sono
fermamente convinti che qualcun altro, prima dei tecnici della Ifremer, abbia manovrato
sul fondo del Tirreno per raccogliere e fare sparire reperti imbarazzanti, poiché
troppo evidenti sono, a suo giudizio, alcuni solchi di recente formazione, lasciati
nei sedimenti abissali da qualche apparato sottomarino che, probabilmente, è stato
usato per trascinare e sollevare oggetti pesanti. Solchi che sono stati ripresi
e fotografati dall'alto, prima che la ditta francese procedesse al recupero del
relitto. Chi è sceso sul relitto del DC9 Itavia nel 1980? La Mediterranean Survey Services del banchiere Pacini Battaglia e del socio, ossia l'ammiraglio Giovanni Torrisi, allora capo di Stato Maggiore della Difesa? Oppure la Marina militare Usa, come ha dichiarato Giuliano Amato in veste di sottosegretario alla presidenza del consiglio? O forse l'Ifremer che nel 1986, senza alcuna autorizzazione formale dello Stato italiano, ovvero un anno prima di firmare il contratto per il recupero del relitto, dragò proprio quei fondali? Alla ricerca di cosa?
Altro che incidente. Il Dc 9 Itavia era forse una vittima designata, oppure soltanto sacrificata? Da allora ai giorni nostri sono state assassinate almeno 21 testimoni scomodi - senza contare le vittime indirette della strage di Ramstein il 28 agosto 1988 - che avrebbero prima o poi raccontato la verità negata ancora dopo 33 anni di depistaggi ai massimi livelli istituzionali, nazionali ed internazionali.
Altro che incidente. Il Dc 9 Itavia era forse una vittima designata, oppure soltanto sacrificata? Da allora ai giorni nostri sono state assassinate almeno 21 testimoni scomodi - senza contare le vittime indirette della strage di Ramstein il 28 agosto 1988 - che avrebbero prima o poi raccontato la verità negata ancora dopo 33 anni di depistaggi ai massimi livelli istituzionali, nazionali ed internazionali.
...ed i pochi superstiti ancora rimasti furono barbaramente ammazzati direttamente in mare dopo l'ammaraggio del DC-9 !
RispondiEliminaCHE SCHIFO ! CHE GOVERNI !!