Golfo di Trieste: una portaerei nucleare United States of America - foto Gilan |
di Gianni Lannes
Radionuclidi artificiali
in tutti i mari d'Italia, isole incluse, soprattutto plutonio 239 e
240 che vantano un'emivita letale per gli esseri umani di appena 24.400 anni. Studi e ricerche dell'International Atomic Energy Agency, nonché di varie università almeno da quattro lustri attestano l'incancrenita situazione.
Mari nucleari intorno a noi, tanto per parafrasare un noto saggio
della biologa marina Rachel Carson (The Sea Around Us) pubblicato nel 1951 (Oxford University Press).
Nelle acque marine del Belpaese non manca quasi nulla di innaturale: arsenico, mercurio, iprite e bombe al fosforo. Chi ha scaricato e disperso nel Tirreno, come pure nell'Adriatico e nello Ionio tali micidiali sostanze?
Una pericolosa radioattività è stata disseminata e viene diffusa soprattutto da sottomarini a propulsione e armamento nucleare della Marina militare statunitense (US Navy). L'impatto è catastrofico, ma nel Belpaese si sottovaluta il fenomeno.
Trieste è uno dei 12 porti nucleari italiani, dove unità a propulsione ed armamento atomico della NATO possono transitare e sostare indisturbate, senza alcun tipo di controllo civile. E i piani obbligatori di sicurezza per la popolazione italiana? Inesistenti, obsoleti o addirittura segreti.
Ecco quello che una ricerca scientifica ha evidenziato nel 1996, ovvero la presenza nei sedimenti marini dell'Adriatico settentrionale, da Trieste ad Ancona, in particolare di plutonio 239 e plutonio 240.
A
proposito, in Italia che esito sanitario ed ambientale ha avuto
l'incidente del 22 novembre 1975. quando due navi nordamericane, la
portaerei J.F.Kennedy e l'incrociatore Belknap, a bordo della quale
vi erano armamenti nucleari, (come testimonia l'allarme in codice
"broken arrow" che fu lanciato dal comandante della sesta
flotta e che indica appunto un incidente che vede coinvolte armi
nucleari) si scontrarono al largo della Sicilia? Il Belknap che
equipaggiava missili atomici prese fuoco e fu gravemente danneggiato.
L'ordine di Washington fu perentorio: "Non informate gli alleati
italiani". A proposito: quale unità militare alleata ha affondato all'alba del 26 ottobre 2006 al largo di Porto San Giorgio il peschereccio Rita Evelin, causando la morte di tre pescatori?
Del tutto ignoti all’opinione pubblica sono i pericoli derivanti dalle soste nei porti di unità navali a propulsione nucleare e/o dotati di testate atomiche. Nonostante l’adesione al Trattato di non proliferazione e due referendum che hanno ribadito il rifiuto popolare all’energia nucleare, le autorità consentono il transito e l’approdo di naviglio da guerra nucleari ad Augusta, Brindisi, Cagliari, Castellammare di Stabia, Gaeta, La Maddalena, La Spezia, Livorno, Napoli, Taranto e Trieste.
Nell’ultimo mezzo secolo è stato registrato un numero rilevantissimo di incidenti ai reattori nucleari navali: più di un centinaio di emergenze radiologiche a bordo delle unità di militari Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna e Francia. “I sottomarini nucleari sono inevitabilmente sistemi accident prone, ovvero possono subire vari tipi di incidenti, anche molto gravi, con frequenza notevolmente maggiore rispetto ai sistemi nucleari civili”, ha rilevato uno studio pubblicato dal Politecnico di Torino (a cura del professor Massimo Zucchetti e di Francesco Iannuzzelli - Peacelink e Vito Francesco Polcaro – CNR). “In campo civile esistono numerosi sistemi di sicurezza e di emergenza che sono obbligatoriamente presenti nel reattore nucleare, senza i quali l’impianto non ottiene il permesso di funzionamento da parte delle autorità preposte. Su un sottomarino, la presenza di questi sistemi è assai più contenuta, per ragioni di spazio, di peso e di funzionalità. Inoltre, essendo vascelli militari, i sottomarini nucleari sono soggetti all’approvazione e alla responsabilità esclusivamente delle autorità militari, notoriamente e costituzionalmente poco sensibili al problema dell’impatto ambientale dei loro armamenti e della salute di coloro che li adoperano. Di conseguenza ci ritroviamo col paradosso che reattori nucleari che non otterrebbero la licenza di esercizio in nessuno dei paesi che utilizzano l’energia atomica, circolano invece liberamente nei mari”.
“I sottomarini sono progettati in genere per resistere alla pressione del mare non oltre i 500 metri di profondità”, aggiungevano i ricercatori del Politecnico. “Se quindi uno di essi affonda e finisce a profondità maggiori, il vascello si danneggia irrimediabilmente e non si può fare affidamento sul contenimento di eventuali sostanze inquinanti a bordo. Siamo cioè di fronte ad una bomba ecologica aperta e soggetta ad interazione con le acque, incapace di impedire la dispersione nell’ambiente delle sostanze radioattive (…) Ricerche in corso dimostrano la correlazione fra la presenza di sommergibili a propulsione nucleare e la concentrazione di elementi radioattivi alfa-emettitori in matrici biologiche marine”.
Ciò che non è assolutamente consentito ai reattori civili è invece permesso durante gli approdi delle unità da guerra nei porti italiani. “Nell’ambito della localizzazione e del licensing di reattori civili terrestri – stigmatizzava lo studio del Politecnico di Torino - le normative impongono intorno ad essi la previsione di un’area con un raggio di 1.000 metri in cui non sia presente popolazione civile (la cosiddetta zona di esclusione), mentre è richiesta, in una fascia esterna più ampia - di non meno di 10 chilometri di raggio - una scarsa densità di popolazione per ridurre le dosi collettive in caso di rilasci radioattivi, sia di routine che incidentali. Cosa del tutto diversa nel caso dei reattori nucleari a bordo di unità navali militari: molti dei porti si trovano in aree metropolitane densamente popolate e i punti di attracco e di fonda delle imbarcazioni sono, in alcuni casi, posti a distanze minime dall’abitato. La presenza di reattori in zone densamente popolate provoca poi, in caso di incidente, evidenti difficoltà di gestione dell’emergenza”.
La scarsissima tutela delle popolazioni potenzialmente esposte ai rischi di incidente negli impianti nucleari o su naviglio a propulsione nucleare evidenziata dai contenuti dei piani di emergenza predisposti e adottati nelle città in cui è consentito il transito e l’approdo delle unità militari.
Diamo i numeri ufficiali. Ingenti i costi finanziari che sono stati sostenuti negli anni per provare a bonificare alcune delle aree più compromesse dalle esercitazioni a fuoco o per rimuovere bombe e ordigni dispersi durante test militari o a seguito di incidenti a vettori e unità navali. Una delle operazioni più complesse è stata condotta dai sommozzatori della Marina Militare nel lago di Garda: nel 2016 al largo di Brenzone sono stati ripescati oltre diecimila ordigni dispersi nei fondali a seguito dell’esplosione nel 1954 di una polveriera. Vere e proprie discariche per le armi di tutti i conflitti del XX secolo quelle del lago di Garda. Il 17 aprile 1999, un caccia F-15 dell’US Air Force prima di atterrare a Ghedi dopo un bombardamento aereo in Serbia, sganciò sei grosse bombe a circa 200 metri dalla spiaggia della Cartiera di Toscolano Maderno (Brescia). Le inchieste hanno poi evidenziato che nel Garda erano finite due bombe GBU Paveway III da 907 chili l’una e quattro del tipo “Blu 97”, cioè le famigerate bombe a grappolo a guida laser, contenenti centinaia di submunizioni che vengono seminate a distanza trasformandosi in vere e proprie mine anti-uomo.
Durante la sanguinosa guerra in Kosovo furono perpetrati dalle forze NATO altri crimini ambientali incredibili nelle acque dell’Adriatico (davanti a Chioggia, Rimini, Ancona, Senigallia, Fano e Molfetta), in 24 aree segretamente classificate dai vertici dell’Alleanza “per lo scarico di materiale bellico dagli aerei in difficoltà”.
In un rapporto pubblicato nel 2001 dall’ICRAM (Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, poi ISPRA), fu evidenziato come fino agli anni Settanta era pratica corrente delle forze armate italiane e straniere lo “smaltimento” nei fondali marini di munizionamento militare obsoleto, senza tenere minimamente conto delle conseguenze per l’ambiente marino e la salute della popolazione. “Sono così finiti sui fondali del basso Adriatico i residuati a carica chimica del secondo conflitto mondiale provenienti dalla bonifica dei porti ingombri di relitti di naviglio militare e da depositi e stabilimenti di produzione assemblaggio e confezionamento di ordigni”, denunciava l’ICRAM. “Le indagini effettuate al largo della Puglia hanno evidenziato la sussistenza di danni e rischi per l’ecosistema marino, determinati da inquinanti persistenti rilasciati da residui corrosi, tracce significative di arsenico ed iprite e condizioni di sofferenza dei pesci (insorgenza di tumori, danni all’apparato riproduttivo ed esposizione a mutazioni genetiche)”. Pesantissimo il tributo pagato in termini socio-sanitari dagli operatori della pesca pugliese: per decenni – ricorda l’ISPRA - “hanno dovuto ricorrere a cure ospedaliere perché colpiti da sostanze fuoriuscite da residuati a carica chimica, in qualche caso con esito infausto” mentre tale situazione veniva colpevolmente ignorata dalla pubblica amministrazione.
Ancora oggi le acque pugliesi continuano ad essere contaminate dagli ordigni bellici. L’ufficio stampa delle forze armate hanno riportato che nella primavera del 2023 è stata condotta una nuova campagna di bonifica di “residuati bellici” nella zona portuale della città di Molfetta. “Gli artificieri dell’Esercito e della Marina Militare hanno recuperato e fatto brillare 11 residuati bellici, tra cui 7 bombe di aereo da 30 libbre e 4 ordigni di piccolo e medio calibro a caricamento speciale”, riporta la nota.
Altra storia l'affondamento durante l'estate del 1944, da parte del germanico Sonderkommando Mayer, di armi chimiche (migliaia di bombe all'iprite e barili di arsenico) al largo di Pesaro, Fano e Cattolica, dove ancora giacciono indisturbate, anche se dal 1945 ai giorni nostri hanno mietuto innumerevoli vittime tra gli ignari pescatori.
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