7.3.17

CHE NE SAI TU DI UN CAMPO DI GRANO?



 Manfredonia: 1 marzo 2017 - © foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)


di Gianni Lannes

Lucio Battisti, uno dei più apprezzati cantautori italiani, in “Pensieri e Parole” chiedeva appunto “Che ne sai tu di un campo di grano…”.  Infatti i passaggi oscuri dalla terra alla tavola sono sconosciuti a milioni di comuni mortali. 

In effetti il prezzo del grano in Italia è paralizzato al 1987, ma il pane dal fornaio costa il 1450 per cento in più. Eppure il consumatore non se ne accorge: oggi ci vogliono trenta chili di grano per arrivare alla quotazione di un chilo di pane. Questa è la situazione denunciata pubblicamente e in più occasioni da Coldiretti, ma non solo. A livello nazionale gli ettari coltivati sono 600 mila per 30 milioni di quintali. Se invece si passa al grano duro, quello per la pasta, coltivato soprattutto nelle regioni meridionali (Puglia, Sicilia, Basilicata, Molise), gli ettari sono 1,3 milioni e i quintali 49 milioni. Tanti? No, pochi se si pensa che importiamo 23 milioni di quintali di grano duro e ben 48 di quello tenero: gli arrivi dall’Ucraina sono quadruplicati, raddoppiati dalla Turchia. Ma allora perché esportiamo frumento in Nord Africa? Comunque, la pasta è la terza voce del nostro export commerciale (vale 2,4 miliardi di euro all’anno), mentre di prodotti da forno ne esportiamo per 1,7 miliardi. A fronte di tutte queste cifre da capogiro e di crescita percentuale, resta quella misera del prezzo pagato ai coltivatori, che fra l’altro è crollato nell’ultimo periodo quasi del 30 per cento. Sarà l’effetto perverso della globalizzazione, ma qui ci confrontiamo con concorrenti che non hanno i nostri obblighi fiscali e soprattutto sanitari. Certo, ci sono controlli a campione nei porti, ma non è che facciano da seria barriera. Insomma, rari controlli, legislazione carente, speculazione dilagante, import selvaggio. Solo a Manfredonia - dove un privato spadroneggia nel porto, un'area demaniale dello Stato - dall'inizio del 2017 ad oggi sono approdate una mezza dozzina di navi portarinfuse ricolme di grano straniero (Ucraina, Russia, Bulgaria, Canada), poi scaricato in camion che trasportano di tutto. E l'igiene? Ma la salute pubblica conta qualcosa - in uno Stato di diritto almeno sulla carta - o vale e prevale soltanto il profitto economico a scapito della vita umana?


E poi la speculazione: il grano si può stoccare anche per due o tre anni e quindi immetterlo sui mercati a seconda delle quotazioni. Un giochetto che riesce molto bene alle «5 sorelle» dei cereali (il colosso Usa, Adm; la Cargill di Minneapolis; i franco-statunitensi della Louis Dreyfus; gli argentini della Bunge Y Borne e gli svizzeri senza scrupoli della Glencore) con speculazioni finanziarie che prima o poi metteranno in ginocchio l’agricoltura reale.

Che si mette nel piatto? C’è anche un problema di tracciabilità:  il consumatore deve poter scegliere, per questo è opportuno, oltre al rafforzamento dei controlli sul grano importato, anche l’etichettatura trasparente per i prodotti da forno, pane e pasta. Quanti vedono il simbolo del tricolore e pensano di mangiare «italiano», quando invece la farina arriva magari da Kiev?
Secondo la CIA «Risulta che enormi quantità di grano italiano sono state esportate nel Nord Africa, insieme all'arrivo, in contemporanea con i raccolti di navi piene di frumento provenienti da Paesi terzi», e questo,  «ha determinato questa 'guerra del grano', con prezzi insostenibili. Venticinque anni fa il frumento valeva 30 mila lire, più o meno le stesse quotazioni di oggi».
Rilievi ai quali risponde Italmopa - Associazione Industriali Mugnai d'Italia, in un'audizione in Commissione agricoltura alla Camera.  «Il raccolto 2016 di frumento duro - ha precisato Ivano Vacondio, Presidente Italmopa - è caratterizzato da livelli produttivi particolarmente elevati, ma anche da carenze qualitative riconducibili alle condizioni meteo sfavorevoli verificatesi nel corso del raccolto, in particolare in Puglia, principale zona di produzione nazionale di frumento duro».  Per Italmopa «la produzione nazionale di frumento duro è strutturalmente deficitaria rispetto al fabbisogno dell'Industria, la quale si trova pertanto nell'obbligo di importare significativi quantitativi di frumento duro, essenzialmente dal Canada e dagli Stati Uniti, le cui quotazioni risultano più elevate rispetto alle quotazioni del frumento nazionale».

La produzione di grano in Italia è a un bivio. Sono cambiate le esigenze dell’industria del pane e della pasta, il prezzo viene definito da un mercato globale in un contesto internazionale instabile e i produttori di cereali italiani si ritrovano (da soli e senza garanzie) a fare i conti con le importazioni massicce di grano dall’estero, la mancanza di norme che regolino il mercato mondiale e limiti notevoli nella capacità di stoccaggio. Ecco la cornice che fa da contorno alla crisi del grano in Italia, diventata ormai guerra tra i produttori di frumento e l’industria. Anche il Codacons è intervenuto con un esposto. Come uscire dalla crisi? «Sfatiamo il mito che il nostro grano non è di qualità -  spiega il responsabile dell’area Produzioni cerealicole di Confagricoltura, Mario Salvi - Il punto è che spesso quello ad alto contenuto proteico viene mescolato con frumento più scadente dal punto di vista delle caratteristiche organolettiche».
L’ Associazione industriali mugnai d’Italia ha stimato che la produzione nazionale 2016 di frumento duro supera le 5,5 milioni di tonnellate.  I pastai affermano che è necessario importare grano a causa del basso tasso proteico di quello italiano, ma per Coldiretti le flessioni dei prezzi sono dovute «alla mancanza di norme che regolano il mercato mondiale», leggi l’etichettatura di origine obbligatoria e la tracciabilità, «al divario dei prezzi corrisposti alla produzione rispetto al consumo e alle importazioni speculative». Ufficialmente, l’Italia produce, infatti, 3 milioni di tonnellate di frumento tenero all’anno per la produzione di pane e biscotti, pari al 50% del fabbisogno, e oltre 4 milioni di tonnellate di grano duro per la pasta (il 60% del fabbisogno).  Così nel 2015 sono stati acquistati dall’estero circa 4,8 milioni di tonnellate di frumento tenero e 2,3 milioni di tonnellate di grano duro. Nello stesso periodo, però, sono più che quadruplicati gli arrivi di grano dall’Ucraina, fino a superare i 600 milioni di chili, e raddoppiati quelli dalla Turchia per un totale di circa 50 milioni di chili. Ogni anno alle importazioni di grano destinato all’industria se ne aggiungono altre in chiave speculativa da diversi Paesi che si concentrano nel periodo a ridosso della raccolta e che influenzano i prezzi delle materie prime anche attraverso un mercato non sempre trasparente. I grossi importatori di cereali acquistano da diversi Paesi a settembre, quando il raccolto italiano è stato chiuso e inizia a essere disponibile quello canadese.  Il ricorso alle importazioni serve a non fare salire i prezzi. La Commissione Agricoltura della Camera sta avviando intanto la discussione sulle risoluzioni per il rilancio del settore, depositate nei giorni scorsi. Tra queste quella per predisporre un piano nazionale presentata dal Movimento 5 Stelle, che sollecita i decreti attuativi della legge 91/2015 con cui il deputato grillino Giuseppe L’Abbate ha istituito le Commissioni Uniche Nazionali in sostituzione delle Borse Merci, datate 1913.  

«L'anno scorso sono state acquistate all'estero 2,3 milioni di tonnellate di frumento - denuncia Saverio de Bonis, presidente di Granosalus - A scapito della sicurezza alimentare. Anche perché in Italia i limiti alle sostanze contaminanti sono più alti che nella maggior parte del mondo: in Canada quella materia prima non si usa neanche per gli animali». Gli industriali rispondono che il grano straniero, che ha più glutine, migliora la qualità della pasta. Ma spesso il frumento proviene da paesi come l’Ucraina, dove secondo i rilievi scientifici dell’IAEA, la radioattività ha contaminato i terreni per migliaia di anni. Non è tutto. «In Italia può essere consumato anche dai bambini ciò che in Canada non va bene neppure per gli animali». È la denuncia di Coldiretti, che segnala la mancanza di trasparenza sull’etichetta.  «Una cosa è l’alta quantità di glutine - dichiara il portavoce di Granosalus - un’altra è l’assenza di sostanze tossiche». I vuoti sono da ricercare anche nelle leggi comunitarie, non tarate sugli interessi del consumatore.


E’ sufficiente aggirarsi in una dozzina di porti italiani per rendersi conto delle nostre frontiere colabrodo. Sono due i principali nodi: il lungo periodo di navigazione che può alterare il prodotto e la mancanza di indicazione sull’etichetta circa l’origine. «Ci preoccupa - aggiunge De Bonis - anche la presenza di Deossinivalenolo (Don o vomitossina)”. Questo perché i parametri europei sui limiti di Don nei cereali utilizzati per l’alimentazione umana sono quasi il doppio rispetto a quelli imposti in Canada. In Italia è considerato commestibile ciò che i canadesi non darebbero neppure agli animali».
I dati dell’Agenzia delle Dogane attestano che da luglio 2015 a febbraio 2016 al porto di Bari è stato scaricato un milione di tonnellate di grano. «Arriva da Canada, Turchia, Argentina, Singapore, Hong Kong, Marocco, Olanda, Antigua, Sierra Leone, Cipro - spiega il direttore di Coldiretti Puglia, Angelo Corsetti - e spesso passa da porti inglesi, francesi, da Malta e Gibilterra». E tutto ciò non accade solo a Bari: navi cariche di grano duro arrivano a Napoli, Ravenna, Palermo e in altre città».  


Chi controlla tir e silos? Nessuno. Ho avuto modo di verificarlo costantemente dal 2 gennaio 2017 ad oggi. E della tutela della salute parla anche il presidente di Confagricoltura Puglia, Donato Rossi: «Tutti i tir, container e silos devono essere controllati». E non accade. 

"Chi verifica il ciclo della pasta? Sempre nessuno”, attesta Slow Food, che aveva lanciato il primo allarme nel 2010. Per capire se la pasta è di qualità bisogna analizzare alcuni fattori: la presenza di micotossine nel grano duro (estero o italiano), eventuali deterioramenti del prodotto durante i trasporti, i limiti imposti dall’Ue che pare non accorgersi che un italiano medio consuma più pasta (27 chilogrammi all’anno) di un norvegese. Il Regolamento Comunitario 1881/2006 è calibrato su un consumatore medio europeo e non mediterraneo, che storicamente consuma più pasta, pane e cereali. Su questa base l’Europa ha dettato i valori massimi di alcuni contaminanti nel grano. Si parla di piombo, cadmio, mercurio e micotossine (come aflatossine e Don). Per la maggior parte dei Paesi al mondo, ad esempio, i valori del Don sono allineati tra 750 e 1000 ng/g nei cereali, mentre in Italia il limite è fissato a 1750, come nel nord Europa (dove si mangia molta meno pasta). Sempre lo stesso regolamento riconosce per pasta e pane una quantità di Don che scende miracolosamente a 750 e 500. Com’è possibile? E dato che quel limite scende a 200 ng/g negli alimenti a base di cereali o comunque destinati a lattanti e bambini sotto i 3 anni bisogna chiarire che al di sotto dei 6 anni non si può mangiare la stessa pasta degli adulti. Questi i limiti delle norme. Poi c’è un mondo che si muove al di fuori delle regole. Importiamo cereali a uso zootecnico: non è legale, ma c’è chi lo fa proprio per mancanza di controlli. E, una volta nel silos, il grano diventa per miracolo tutto italiano.

Esattamente sulla vomitossina un progetto delle Politiche agricole (Micocer 2006-2008) ha definito "la minore incidenza nei grani del Sud, rispetto a quelli del Nord Italia". Questo perché il clima umido e le piogge favoriscono la presenza di micotossine, mentre il grano del Mezzogiorno viene raccolto a temperature molto elevate (tra i 28 e i 48 gradi) che non ne permettono la proliferazione. Ma in Canada il clima è umido e spesso si miete con la neve. A ciò bisogna aggiungere gli effetti di lunghi viaggi transoceanici a bordo di navi cargo: scarsa aerazione, umidità ed escursioni termiche. Altra fase: la miscela. Il regolamento 1881 vieta di miscelare frumenti in norma con quelli che superano i valori massimi, con lo scopo di  stemperarne il carico di tossina. Vietato il taglio insomma. Che pur riducendo i valori, non li rende idonei all’alimentazione dei bambini.  

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