di Gianni Lannes
Non
è possibile stabilire come e quando sia cominciata a Salle (in provincia
di Pescara), la lavorazione delle budella ovine, per farne corde armoniche e da
chi sia stata introdotta.
Questo
è un mestiere antichissimo, conosciuto già dai popoli primitivi, soprattutto da
quelli nomadi, dediti alla pastorizia. Narra una relazione del 1806: «L’unico capitale d’industria, in questa
terra di Salle, è quello del lavoro delle corde armoniche, le quali sono
portate all’ultimo grado di perfezione, in guisa che per ogni dove portansi
questi sallesi per travagliare su di esse, ed in Napoli, ed in Roma, per il
Fiorentino e perfino in Francia».
Con
le budella ritorte e seccate si facevano legacci d’ogni genere, o corde per
arco, come presso i Persiani. I Greci ci fabbricavano le corde della “chitara”,
lo strumento da cui derivò la cetra romana. Nessuna sorpresa se in un piccolo
agglomerato di pastori della Maiella, in cui abbonda la materia prima delle
budella di ovini, la gente si sia industriata a torcere e a lavorare le corde
armoniche. Meraviglia desta invece la maestria acquisita dai sallesi, in questo
genere di attività produttiva; bravura che li ha resi detentori unici in Europa
di questa specialità.
Cordari: i fratelli Toro - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
I
fratelli Toro fabbricano e vendono le corde armoniche in Francia, Germania,
Austria, Belgio, Canada, Stati Uniti; hanno anche rifornito il Museo Reale di
Parigi.
«Se
non fosse per la pignoleria dei musicisti che spesso vengono in laboratorio ad
ordinare personalmente il prodotto e accordare gli strumenti, ma anche per la
nostra testardaggine, quest’arcaica attività sarebbe tramontata da un pezzo»
racconta Beniamino, che il mestiere nel
sangue. Arrivano a Salle - capitale internazionale delle corde armoniche - da
ogni parte del mondo, attirati dall’arte di fabbricarle con metodi e materie
prime naturali.
La
fila di attesa è lunga e comprende commesse dal Giappone. La bottega è
frequentata dagli addetti ai lavori. Proprio con loro il cordaro instaura un
rapporto strettissimo, fatto anche di manie e piccole astuzie.
lavorazione a mano - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati) |
«Alcuni musicisti provano gli strumenti per
ore, lamentandosi sempre. Poi magari, diamo un colpetto al violino, sfioriamo
lo strumento e loro si illuminano» spiegano all’unisono i due fratelli
artigiani. Gente curiosa i cordari Toro: hanno imparato il mestiere dal padre,
a bottega, attraverso un percorso di ricerca filologica. Nei documenti storici
del paese, a partire dalla seconda metà del 1400, si incontrano copiosi
riferimenti a quest’attività, che rappresentava una buona fonte di reddito. La
lavorazione delle corde armoniche viene fatta a mano. Un tempo nella bottega
(uno stanzone sotto casa o poco lontano) ci lavorava il capofamiglia, aiutato
da figli e parenti, ognuno dei quali era specializzato in una fase della
lavorazione: raschiatura, spaccatura, torcitura, raffinatura e, infine, levigatura.
Quando
la materia prima cominciò a scarseggiare a metà Settecento, perché aumentavano
le richieste del prodotto finito, molti sallesi emigrarono. Nei primi decenni
del XIX secolo il fenomeno si accentuò e l’espansione di questa attività
raggiunse confini lontani.
Alle
corde armoniche si affiancarono altri prodotti: corde da tennis e, soprattutto,
il “catgut”, filamento sottilissimo per suture chirurgiche. Alle botteghe di
Napoli s’aggiunsero quelle di Civitavecchia, e poi quelle di Genova: porti in
cui era facile rifornirsi di materia prima, perché via mare giungevano le botti
di budella fresche, provenienti dall’Algeria, dal Marocco, dalla Spagna e dalla
Sardegna. All’inizio del secolo, due fratelli, Emilio e Olindo, emigrati negli
Usa, allestirono una fabbrica di corde armoniche e fondarono la società “E. e
O. Mari - La Bella Guitar Strings”, tuttora in fiorente attività.
I
periodi di maggior lavoro per i cordari di Salle, specie per la lavorazione del
“catgut” furono quelli delle due guerre mondiali. I Tedeschi dal novembre 1943
al giugno 1944 imposero l’aumento della produzione, requisendola per la
Germania.
Adesso
le budella di ovini vengono sostituite da materiali sintetici. A Salle, però,
sopravvivono i cordari per la tenacia di alcune famiglie che lavorano con
metodi tradizionali. Incontri di oggi, mestieri di ieri: l’orecchio teso per
tradurre i suoni.
E’ anche
questo l’insospettabile tesoro italiano
che fa la differenza nel mondo.
Figli di un’Italia minore
Paesi
che si spopolano fino a scomparire mentre le necropoli tra traffico e
inquinamento scoppiano. C’è una parte dello Stivale che rischia di dissolversi.
Non si tratta solo di piante e di specie animali. Quello che l’Italia sta
perdendo sono i suoi comuni: una delle principali fonti di ricchezza culturale.
Quasi tremila sono a rischio. Più di un terzo del totale. Il problema, però,
non riguarda solo il giardino d’Europa ma anche altre nazioni del Mediterraneo.
Un
terzo dell’Italia, dunque, rischia di venire cancellato dalle carte
geografiche. È questa la conclusione di una ricerca elaborata dal Cresme,
intitolata “l’Italia del disagio abitativo”. Secondo l’indagine 2830 comuni su
poco più di 8 mila sono in pericolo di estinzione a causa della fuga della
popolazione, dell’invecchiamento precoce, del crollo delle nascite,
dell’assenza dei servizi pubblici essenziali, dell’altissimo tasso di
disoccupazione. La mappa delle zone a rischio non è concentrata nel
Mezzogiorno, ma interessa un po’ tutta la penisola: dalle Alpi agli Appennini;
dalle zone interne di Marche, Umbria e Toscana, alle aree montuose di Calabria,
Sicilia e Sardegna. Rischia di sparire il paese del Gattopardo, Palma di
Montechiaro; ma anche località note come: Cascia, Bagnoregio, Magliano,
Corsara, Amatrice, Castiglione in Teverina.
In questi lembi d’Italia si assapora una
sensazione di lentezza sconosciuta a chi vive in una metropoli e deve
districarsi nel caos urbano. Veloci, sempre più veloci e in corsa contro il
tempo. Così 30 Comuni si autoproclamano “riserve naturali della lentezza”. I
paesi “slow”, da Asti a Palestrina, da Greve in Chianti a Todi, si sono
associati per difendere i loro stili di vita, i tempi degli esseri umani,
piuttosto che quelli delle macchine. Difendere la propria autonomia - nel
Belpaese - vuol dire tutelare 20 mila centri storici, 40 mila tra rocche e
castelli; e poi archivi e biblioteche, giardini, chiese e conventi.
I
luoghi in cui la memoria cutodisce la nostra storia, dove sopravvive la nostra identità, dove vivono le nostre antiche radici.
E io di racconti di antiche radici ne conosco una città :-) saluto le mie nonnine loro sanno!!
RispondiEliminae forse anche lei Gianni Lannes. A presto se tutto s'incastrerà :-)