Non
è la Grecia, non è l'Egeo, bensì l'antica Daunia, un lembo di Mediterraneo d'Oriente in Occidente, dove la luce naturale è puramente
magica. I suoi riflessi dorati si adagiano nei giardini d'agrumi. Qui, sul fianco settentrionale della montagna del sole, nel
medesimo luogo si accarezza con lo sguardo alba e tramonto. Il borgo, vicino per influssi storici, antropologici e culturali a Trieste e all'Istria, più che a Bari o Foggia, sopravvissuto alla barbarie della modernità che ha
spalmato cemento armato quasi ovunque, distruggendo e degradando la
bellezza primigenia della natura consacrata alla storia, è
abbarbicato alla roccia calcarea che scruta all'orizzonte ad occhio nudo la
montagna della Majella in Abruzzo, le Isole Tremiti, la maestosa Lissa, la
Dalmazia e le Pelagose.
La parlata è un idioma bizantino, unico nel suo genere nel promontorio dove l'acqua di sorgente sgorga frizzantina nel seno delle colline fino al mare. A Rodi l'aria
è di zagare che danzano nel vento di Tramontana, per andare a sposare
il blu cobalto del mare Adriatico. Questo è un paese in cui si sente
l'assenza di chi se n'è andato e di chi non è mai arrivato. Un
tempo, in loco, nascevano formidabili marinai (i più bravi e temerari nel regno di Napoli) ed abili pescatori, ormai estinti. Qui, dove è passata per secoli la storia degli agrumi in Italia esportati in tutta la Terra,
l'ebbrezza di stare al mondo è svanita in un'inerzia acida di una stagione malinconica vissuta senza letizia. A Rodi - non ancora stritolata dal turismo di massa che riduce tutto a cartolina estiva - il tempo
dell'orologio è un tempo ultimo, dove si approda lentamente in treno, a piedi, in barca a vela o in bicicletta.
Riferimenti:
Gianni Lannes, La montagna profanata, Il Rosone, Foggia, 2015.