BIOGRAFIA

16.7.24

MARI D'ITALIA: A RISCHIO E PERICOLO NUCLEARE!

 




di Gianni Lannes

Radioattività sull'onda. Transito e sosta di sommergibili a propulsione e armamento nucleare nei porti del Belpaese, esercitazioni militari nazionali e internazionali (Nato & Usa) anche in parchi naturali e aree protette (sulla carta), nonché mancate bonifiche ambientali mettono a rischio la salute di più o meno ignari esseri umani: militari, civili inclusi gli animali. L'International Atomic Energy Agency ha trovato nel Mediterraneo, inclusi i mari d'Italia, addirittura il letale plutonio 139, un radionuclide artificiale.


 

Il popolo italiano che con due referendum ha rifiutato il nucleare si ritrova a sua larga insaputa nei porti unità navali a propulsione nucleare che costituiscono un pericolo per la popolazione. Non è tutto. Amianto presenti nelle navi militari dove svetta il tricolore, smaltimento in mare e laghi di materiale bellico obsoleto pericoloso ed inquinante. Dulcis in fundo: immense discariche belliche a caricamento speciale “alleate” statunitensi in Adriatico e Tirreno. Quale futuro e quale salute in tempo di finta pace?

“Una delle più micidiali fonti cancerogene e di altre nocività diffuse sul territorio d’Italia è proprio l’apparato militare (basi, depositi, poligoni e così via). Da sempre nocivo e devastante, dopo la seconda guerra mondiale questo apparato è diventato sempre più generatore di morte e altre conseguenze negative a causa dell’assoggettamento dell’Italia al dominio di Washington, direttamente o attraverso il simulacro dell'Alleanza Atlantica. Le guerre e le basi militari per imporre i modelli dominanti di sfruttamento intensivo delle risorse naturali è tra le maggiori cause dei crimini socio-ambientali e dell’inquinamento dei territori, dell’aria e del mare.

L’apparato militare è il primo dilapidatore di risorse naturali e fonti energetiche, produttore di rifiuti tossici e radioattivi, campi elettrici ed elettromagnetici, acceleratore di processi di consumo dei suoli e desertificazione. Se ne parla poco, quasi niente, eppure gli impatti su clima e ambiente delle attività delle forze armate sono stati e continuano ad essere devastanti. Del tutto ignoti all’opinione pubblica sono in particolare i pericoli che possono essere generati dalle soste nei porti di unità navali ad alimentazione nucleare e/o dotati di testate atomiche. Nonostante l’adesione al Trattato di non proliferazione e due referendum che hanno ribadito il rifiuto popolare all’energia nucleare, le autorità italiane di ogni ordine e grado consentono il transito e l’approdo di navi da guerra nucleari ad Augusta, Brindisi, Cagliari, Castellammare di Stabia, Gaeta, La Maddalena, La Spezia, Livorno, Napoli, Taranto e Trieste, cioè proprio in quelle aree territoriali stuprati dai maggiori poli chimici e petroliferi nazionali, dagli imponenti complessi industriali ad alto rischio ambientale, dai depositi di carburante e munizioni, oleodotti e gasdotti, eccetera.

Nell’ultimo trentennio è stato registrato un numero rilevantissimo di incidenti ai reattori nucleari navali: più di un centinaio di emergenze radiologiche a bordo delle unità di militari Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna e Francia. “I sottomarini nucleari sono inevitabilmente sistemi accident prone, ovvero possono subire vari tipi di incidenti, anche molto gravi, con frequenza notevolmente maggiore rispetto ai sistemi nucleari civili”, ha rilevato uno studio pubblicato dal Politecnico di Torino (a cura del professor Massimo Zucchetti e di Francesco Iannuzzelli - Peacelink e Vito Francesco Polcaro – CNR). “In campo civile esistono numerosi sistemi di sicurezza e di emergenza che sono obbligatoriamente presenti nel reattore nucleare, senza i quali l’impianto non ottiene il permesso di funzionamento da parte delle autorità preposte. Su un sottomarino, la presenza di questi sistemi è assai più contenuta, per ragioni di spazio, di peso e di funzionalità. Inoltre, essendo vascelli militari, i sottomarini nucleari sono soggetti all’approvazione e alla responsabilità esclusivamente delle autorità militari, notoriamente e costituzionalmente poco sensibili al problema dell’impatto ambientale dei loro armamenti e della salute di coloro che li adoperano. Di conseguenza ci ritroviamo col paradosso che reattori nucleari che non otterrebbero la licenza di esercizio in nessuno dei paesi che utilizzano l’energia atomica, circolano invece liberamente nei mari. I sottomarini sono progettati in genere per resistere alla pressione del mare non oltre i 500 metri di profondità”, aggiungevano i ricercatori del Politecnico. “Se quindi uno di essi affonda e finisce a profondità maggiori, il vascello si danneggia irrimediabilmente e non si può fare affidamento sul contenimento di eventuali sostanze inquinanti a bordo. Siamo cioè di fronte ad una bomba ecologica aperta e soggetta ad interazione con le acque, incapace di impedire la dispersione nell’ambiente delle sostanze radioattive (…) Ricerche in corso dimostrano la correlazione fra la presenza di sommergibili a propulsione nucleare e la concentrazione di elementi radioattivi alfa-emettitori in matrici biologiche marine”.

Ciò che non è assolutamente consentito ai reattori civili è invece tollerato e/o permesso durante gli approdi delle unità da guerra nei porti italiani. “Nell’ambito della localizzazione e del licensing di reattori civili terrestri - stigmatizzava lo studio del Politecnico di Torino - le normative impongono intorno ad essi la previsione di un’area con un raggio di 1.000 metri in cui non sia presente popolazione civile (la cosiddetta zona di esclusione), mentre è richiesta, in una fascia esterna più ampia - di non meno di 10 chilometri di raggio - una scarsa densità di popolazione per ridurre le dosi collettive in caso di rilasci radioattivi, sia di routine che incidentali. Cosa del tutto diversa nel caso dei reattori nucleari a bordo di unità navali militari: molti dei porti si trovano in aree metropolitane densamente popolate e i punti di attracco e di fonda delle imbarcazioni sono, in alcuni casi, posti a distanze minime dall’abitato. La presenza di reattori in zone densamente popolate provoca poi, in caso di incidente, evidenti difficoltà di gestione dell’emergenza”.

La scarsissima o inesistente tutela delle popolazioni potenzialmente esposte ai rischi di incidente negli impianti nucleari o su naviglio a propulsione nucleare evidenziata dai contenuti dei piani di emergenza predisposti e adottati nelle città in cui è consentito il transito e l’approdo delle unità militari. Sono state segnalate rilevanti disparità nelle soluzioni adottate: nella rada di Gaeta, ad esempio, è previsto un punto di fonda per i sommergibili o le unità di superficie a distanza minima di circa 2 km dalle coste; nella base della Maddalena le unità a propulsione nucleare possono attraccare invece a meno di 50 metri dalla costa; a La Spezia il punto di attracco è classificato come “riservato” dallo Stato Maggiore della Marina ed è pertanto coperto da omissis. Per quanto riguarda la “zona di esclusione” nella quale è proibito il transito e la sosta di natanti estranei alle unità nucleari, a Gaeta essa ha un raggio di 700 metri, ad Augusta 1.000, a La Spezia 300, mentre non esiste per nulla a La Maddalena.

Incomprensibili differenze caratterizzano pure gli interventi pianificati in caso d’incidente: a La Spezia è imposto il rapido allontanamento dell’unità coinvolta ad almeno 5 chilometri dalla costa mentre a Gaeta sono ritenuti necessari 10 chilometri. Per quanto riguarda La Maddalena, è la popolazione che dovrebbe essere evacuata “oltre un raggio di 50 chilometri”, cosa ovviamente impossibile da attuare in tempi brevi. Altrettanto drammatici in termini sanitari ed ambientali sono gli effetti delle esercitazioni militari svolte dalle forze armate italiane e straniere negli innumerevoli poligoni presenti in tutto il paese, anche all’interno di importanti parchi o aree naturali “protette”. E’ assai utile soffermarsi in proposito su alcuni dei passaggi contenuti in una recente relazione della Corte dei Conti sui costi finanziari relativi all’iter di bonifica nel settore militare. “Non sfugge che il delicato tema delle bonifiche dipinge uno scenario pregresso - quello riferito agli impatti sulla salute e sull’ambiente provocati dall’impiego di armamento militare nei poligoni, nelle aree addestrative e durante l’impiego in zona di operazioni - estremamente dolente e talvolta luttuoso”, lamenta l’organo di controllo-giurisdizionale dello Stato. Stigmatizzando poi “la tardiva (o omessa) adempienza alla normativa, sia per la bonifica dei poligoni militari che per la bonifica delle navi militari con presenza di amianto” e la durata, “talvolta eccessiva”, dei procedimenti di progettazione ed affidamento delle azioni di prevenzione e risanamento ambientale, la Corte dei Conti ricorda come tutto ciò abbia concorso a provocare “danni, anche gravi, alla salute dei militari stessi, della popolazione e degli animali”.

Nella relazione viene altresì segnalata “la minore vigilanza svolta dall’Arma dei Carabinieri rispetto ai compiti alla stessa affidati, nell’ambito della Difesa, in materia di sorveglianza e di accertamento degli illeciti in violazione della normativa in materia di rifiuti”; è inoltre invocata “la più attenta vigilanza sui poligoni in caso di loro utilizzo per test su nuove armi da parte di reparti della NATO o comunque di Paesi alleati, specie in fase di sperimentazione, anche da parte di produttori di armamenti, assicurandosi che, in qualsiasi circostanza, non vengano utilizzate sostanze di natura chimica, tossica e radiologica, o comunque pericolose, in quantità tali da determinare valori di concentrazione superiori alle soglie di rischio”.

La Corte dei Conti non nasconde la sua preoccupazione per lo stato di contaminazione di importanti infrastrutture militari. “In alcuni poligoni di tiro dell’Esercito sono stati riscontrati nel suolo superamenti delle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC) per i metalli pesanti (principalmente piombo e antimonio), limitatamente alle zone di arrivo colpi”, mentre in alcune basi dell’Aeronautica sono state accertate “potenziali contaminazioni delle matrici ambientali (principalmente suolo superficiale e profondo), riconducibili esclusivamente a sversamenti di idrocarburi da un esiguo numero di cisterne da riscaldamento interrate, risultate non a tenuta”. Le maggiori criticità sono state riscontrate nei poligoni di Torre Cavallo e Torre Veneri in Puglia, in quello interforze di Salto di Quirra e di Capo Teulada in Sardegna e di Balipedio Cottrau a Portovenere (La Spezia). Un progetto scientifico condotto a Torre Veneri dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha accertato la presenza nei fondali su cui si affaccia il poligono di “grandi quantità di residuati di munizionamento consistenti, per lo più, in proiettili da addestramento assimilabili a rottami ferrosi, costituiti, prevalentemente, da alluminio o altri inquinanti rintracciabili”. “Il sito di Torre Veneri è caratterizzato da fondali mobili, nei quali la presenza di residui dei colpi di artiglieria accumulati nel tempo in prossimità della battigia costituiscono, per sé, una forma d’inquinamento in grado di produrre effetti negativi sulle risorse biologiche e sulla qualità delle acque”, sottolinea l’ISPRA; da qui la raccomandazione - fatta propria dalla Corte dei Conti - di una loro “completa rimozione e l’adozione, ai fini della salvaguardia dell’ambiente naturale, di ogni cautela volta a limitare se non impedire, fenomeni di intorbidamento, rotture meccaniche, seppellimento, ecc.”.

Ingenti i costi finanziari che sono stati sostenuti negli anni per provare a bonificare alcune delle aree più compromesse dalle esercitazioni a fuoco o per rimuovere bombe e ordigni dispersi durante test militari o a seguito di incidenti a vettori e unità navali. Una delle operazioni più complesse è stata condotta dai sommozzatori della Marina Militare nel lago di Garda: nel 2016 al largo di Brenzone sono stati ripescati oltre diecimila ordigni dispersi nei fondali a seguito dell’esplosione nel 1954 di una polveriera. Vere e proprie acque pattumiera per le armi di tutti i conflitti del XX secolo quelle del lago di Garda. Infatti, il 17 aprile 1999, un caccia F-15 dell’US Air Force prima di atterrare a Ghedi dopo un bombardamento aereo in Serbia, sganciò sei grosse bombe a circa 200 metri dalla spiaggia della Cartiera di Toscolano Maderno (Brescia). Le inchieste hanno poi evidenziato che nel Garda erano finite due bombe GBU Paveway III da 907 chili l’una e quattro del tipo “Blu 97”, cioè le famigerate bombe a grappolo a guida laser, contenenti centinaia di submunizioni che vengono seminate a distanza trasformandosi in vere e proprie mine anti-uomo. Durante la sanguinosa guerra in Kosovo furono perpetrati dalle forze NATO altri crimini ambientali similari nelle acque dell’Adriatico (davanti a Chioggia, Rimini, Ancona, Senigallia, Fano e Molfetta), in 24 aree di affondamento segretamente classificate dai vertici dell’Alleanza “per lo scarico di materiale bellico dagli aerei in difficoltà”.

In un rapporto pubblicato nel 2001 dall’ICRAM (Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, poi ISPRA), accertò come fino agli anni '70 era pratica corrente delle forze armate italiane e straniere lo “smaltimento” nei fondali marini di munizionamento militare obsoleto, senza tenere minimamente conto delle conseguenze per l’ambiente marino e la salute della popolazione. “Sono così finiti sui fondali del basso Adriatico i residuati a carica chimica del secondo conflitto mondiale provenienti dalla bonifica dei porti ingombri di relitti di naviglio militare e da depositi e stabilimenti di produzione assemblaggio e confezionamento di ordigni”, denunciava l’ICRAM. “Le indagini effettuate al largo della Puglia hanno evidenziato la sussistenza di danni e rischi per l’ecosistema marino, determinati da inquinanti persistenti rilasciati da residui corrosi, tracce significative di arsenico ed iprite e condizioni di sofferenza dei pesci (insorgenza di tumori, danni all’apparato riproduttivo ed esposizione a mutazioni genetiche)”. Pesantissimo il tributo pagato in termini socio-sanitari dagli operatori della pesca pugliese: per decenni – ricorda l’ISPRA - “hanno dovuto ricorrere a cure ospedaliere perché colpiti da sostanze fuoriuscite da residuati a carica chimica, in qualche caso con esito infausto” mentre tale situazione veniva colpevolmente ignorata dalla pubblica amministrazione.

Ancora oggi le acque pugliesi continuano ad essere contaminate dagli ordigni bellici. L’ufficio stampa delle forze armate hanno riportato che nella primavera del 2023 è stata condotta una nuova campagna di bonifica di “residuati bellici” nella zona portuale della città di Molfetta. “Gli artificieri dell’Esercito e della Marina Militare hanno recuperato e fatto brillare 11 residuati bellici, tra cui 7 bombe di aereo da 30 libbre e 4 ordigni di piccolo e medio calibro a caricamento speciale”, riporta la nota. In ogni caso, basta leggere il Portolano della Marina Militare (aggiornato all'estate 2024) per accertare rischi e pericoli attuali.


Riferimenti:

Gianni Lannes, Italia USA e getta, Arianna editrice, Bologna, 2014.

Gianni Lannes, Bombe a...mare, Nexus edizioni, Battaglia Terme, 2018.

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=plutonio+239 

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=icram 

Massimo Zucchetti, Francesco Iannuzzelli, Vito Francesco Polcaro, “Sommergibili nucleari: problemi di sicurezza e impatto ambientale”, Politecnico di Torino, novembre 2004.

Corte dei Conti, “Le bonifiche nel settore Difesa”, Roma, 20 giugno 2022,

https://www.corteconti.it/Download?id=4fd78d87-2632-4341-9c86- c42f4833cc26

https://www.difesaonline.it/news-forze-armate/interforze/gli-artificieri- dellesercito-e-della-marina-militare-hanno-fatto


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