BIOGRAFIA

25.5.22

ITALIA: ARMI PROIBITE E SEGRETI DI STATO!

 

Bussi Officine (1984): fabbrica aggressivi chimici Dinamite Nobel (Archivio Gilan)

di Gianni Lannes

Benvenuti nell'Italietta esplosiva e sempre in guerra. Bombe ad orologeria caricate con aggressivi chimici, micidiali e letali, prodotte e disseminate nell'ex giardino d'Europa; a tutt'oggi, mai bonificate e inertizzate. In virtu' della Convenzione di Parigi (31 gennaio 1993) ne sono responsabili in primis il ministero degli Esteri e quello della Difesa (ai sensi della legge 496/1995 e della legge  93/1997). Quanto all'insicurezza ecologica ne rispondono il ministero della Salute e quello dell'Ambiente. Qui, chi inquina non paga, mai, soprattutto in Abruzzo.

Bussi Officine: fabbrica militare difosgene (24 maggio 2022)- foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)

 

(Archivio Gilan)

(Archivio Gilan)

(Archivio Gilan)


Il problema dei residuati bellici ha origini remote e propaggini nebulose nel Belpaese: nel 1943 l'Italia disponeva di uno dei più grandi arsenali al mondo di armi chimiche e biologiche, tra cui antrace, iprite, fosgene, lewisiste, adamsite, virus, batteri. La gigantesca fabbrica dei veleni ha contribuito alla costruzione dell'impero della dittatura fascista sotto l'egida dei Savoia (fuggiti nel 1943 da Roma verso Brindisi con l'intero Stato Maggiore tra cui i generali Roatta, Badoglio Ambrosio, Orlando e l'ammiraglio De Courten capeggiati dal re traditore della Patria, tale Vittorio Emanuele III, lasciando allo sbaraglio i soldati italiani), mietendo vittime soprattutto in Libia e in Etiopia, colpendo i volontari spagnoli che lottavano per la libertà e costando un prezzo altissimo anche all'Italia. Intere zone dello Stivale sono state contaminate dalle armi chimiche durante le fasi di sperimentazione e alla fine della guerra, soprattutto davanti alle coste delle Marche e della Puglia, nonche' nel Golfo di Napoli, dove sono state scaricate numerose testate letali, ma anche nel cuore montuoso dell'Abruzzo e pure del Lazio, del Piemonte e della Lombardia.

A Bussi Officine in base agli accertamenti dell'Intelligence britannica, dal 1930 al 1944 sono state prodotte - in particolare dalla Dinamite Nobel - oltre 65 mila tonnellate di aggressivi chimici; senza contare i quantitativi sfornati negli impianti vicini di Pratola Peligna (dove nella collina di San Cosimo sorge un mastodontico deposito bellico sotterraneo ed operativo dello Stato tricolore) e Piano d'Orta. D'altronde, i riferimenti probanti estrapolati negli Archivi di Stato (Roma, L'Aquila, Pescara, Chieti, Bari, Foggia), nell'Archivio Storico della Marina Militare italiana e nel Fondo Edison, confermano i dati di Londra. Allora, Bussi sul Tirino o Bussi sull'iprite? Peraltro, sempre a Bussi Officine, nel 1935, fu realizzato ed entro' in produzione il primo impianto al mondo di esplosivo T4 (al plastico). Il famigerato RDX fu usato su tutti i fronti durante la seconda guerra mondiale.

(Archivio Gilan)

Bussi Officine (24 maggio 2022): fabbrica militare Difosgene - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)

Bussi Officine (24 maggio 2022): fabbrica militare Difosgene - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)


A tutt'oggi, non e' dato ancora sapere dalle autorita' italiane che destinazione finale ha avuto questo gigantesco arsenale bellico, proibito dalla Convenzione di Ginevra del 1925. Nella valle inferiore del Tirino, la centrale turbogas Edison, senza alcuna bonifica, ha preso il posto della fabbrica di iprite controllata dal Centro Chimico Militare sorto nel 1923; mentre la fabbrica di difosgene - scampata anch'essa ai bombardamenti anglo-americani - e' ancora al suo posto non risanata ma priva comunque dell'impianto produttivo, con l'ingresso aperto a chiunque. Gli aggressivi chimici sono stati occultati in loco nel sottosuolo, nelle miniere dismesse o altrove?

In Italia le armi chimiche sono state smaltite in modo illegale dopo la fine della seconda guerra mondiale. I protagonisti di questa vicenda sono agenti chimici che causano gravi danni alla salute e uccidono ormai da un secolo. Sono stati usati in Libia (1928) e in Etiopia (1935-36), poi i loro effetti cancerogeni si sono ripercossi e si sentono ancora e tanto sulla salute degli ignari italiani. I loro temibili nomi sono lewisite, iprite, fosgene, difosgene, arsenico, cloro, cloropicrina e agenti nervini serie G e V e tanti altri. 

Sopravvivono al tempo ed entrano nell'aria, nell'acqua, nella terra e nel mare. E sembra che siano ancora lì: alle porte di Roma, alla periferia di Milano, nel golfo di Napoli e attorno all'isola di Ischia, nel mare di Bari, Molfetta e Manfredonia, sulla costa di Pesaro, nel Lago Maggiore e nel Lago di Vico, compresi i fiumi d'Abruzzo: Tirino e Pescara. E altrove, chissa' dove.

Le armi chimiche sono state progettate per essere invisibili, per causare morte e malattie incurabili, di cui è spesso difficile indagare l'origine. Questa è la storia dei veleni - elaborati dalla dittatura fascista - che hanno trasformato alcuni angoli tra i più belli della Penisola in luoghi pericolosi.

Risultano coinvolte molte aziende (tra cui Montecatini, Montedison, Acna, Dinamite Nobel, eccetera) che, grazie al segreto di Stato e all'avallo delle istituzioni di ogni ordine e grado, hanno scaricato i loro rifiuti piu' pericololosi nei fiumi, nei laghi, nei terreni, nelle riserve idriche, nel sottosuolo, nelle caverne, nelle miniere; numerosi impianti mai bonificati sono veri e propri scheletri tossici disseminati nella Penisola, isole incluse.

Ancora oggi non si riesce a stabilire con esattezza quante armi chimiche siano state prodotte in Italia tra il 1923 e il 1945. Il piano varato da Benito Mussolini all'inizio della guerra, prevedeva la costruzione di 46 impianti per distillare 30 mila tonnellate di gas bellici ogni anno. I documenti britannici - innumerevoli prove con rapporti segreti, relazioni diplomatiche, verbali di riunioni del Governo, minute di interventi di Winston Churchill e altri atti riservati che riguardano un periodo dal 1923 al 1985 e le carte militari italiane - attestano che si possa trattare di una quantità "tra le 12.500 e le 23.500 tonnellate prodotte ogni anno".

A questo arsenale imponente si sono aggiunte le armi schierate nel Nord Italia occupato dai tedeschi e quelle importate al Sud dai nordamericani (napalm) e dagli inglesi (bombe al fosforo). Soltanto gli statunitensi dislocarono nella piana del Tavoliere di Puglia, circa 200 mila bombe chimiche, poi affondate dagli alleati nel Basso Adriatico. Fu proprio durante uno di questi trasferimenti nel porto di Bari che nel dicembre 1943 una nave piena di iprite esplose, contaminando acqua e aria: il disastro, il più grave mai avvenuto nel mondo occidentale, venne tenuto nascosto per mezzo secolo. Fu Winston Churchill in persona ad ordinare di tacere, e in tal modo i feriti non avrebbero potuto ricevere cure adeguate. Mentre fu Hitler, in persona, a dare il via libera alla prima di tante operazioni nefaste: affondare nell'Adriatico oltre 4.300 grandi bombe tossiche. Grazie ai documenti degli archivi tedeschi sappiamo che si trattava di 1.316 tonnellate di testate all'iprite, gran parte delle quali si trovano ancora nei fondali a sud di Pesaro.

Washington ordino' segretamente di affondare nei mari d'Italia circa 1 milione di bombe proibite. Dopo il 1945 gli Alleati si liberarono del loro arsenale di gas  da guerrra e di quello catturato agli sconfitti. I files dell'US Army - documenti in parte ancora segreti - rivelano che molte decine di migliaia di ordigni chimici vennero inabissati in una «discarica chimica» nel Golfo di Napoli, davanti all'isola di Ischia.

Questo cimitero sottomarino sprigiona da allora i suoi veleni: le bombe si corrodono e rilasciano iprite e arsenico. Lo studio condotto nel 1999 dagli esperti dell'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram) ha trovato tracce delle due sostanze negli organi dei pesci di quella zona e nei fanghi del fondale. Il responsabile dei ricercatori, Ezio Amato, ha denunciato una situazione molto preoccupante: "I pesci del basso Adriatico sono particolarmente soggetti all'insorgenza di tumori, subiscono danni all'apparato riproduttivo sono esposti a mutazioni che portano a generare esemplari mostruosi.

Tali sostanze tossiche non giacciono soltanto in fondo al mare. Molti cittadini italiani non sanno di abitare in quartieri realizzati intorno, o addirittura sopra, a vecchi stabilimenti di armi chimiche. Solo come esempi esplicativi i casi: dell'Acna di Rho che ha convogliato i suoi scarichi nella falda idrica che scorre verso il centro di Milano, quello di Cesano Maderno che ha contaminato la Brianza e sempre in Lombardia a Melegnano dai suoli della Saronio continuano a sbucare nuvole nocive. I dossier dell'intelligence britannica parlano di 60-65.000 tonnellate di armi chimiche prodotte a Rho, 50-60.000 tonnellate a Cesano Maderno, altre decine di migliaia a Melegnano. Il tutto secondo le priorità di guerra, scaricando fanghi e scarti nei fiumi e nei campi.

Altri esempi esplicativi sono quelli di due stabilimenti di gas protetti dal segreto militare, uno a Cerro al Lambro, davanti al casello milanese dove nasce l'Autostrada del Sole, l'altro a Cesano di Roma, nel territorio della capitale. Sono stati smantellati soltanto nel 1979, senza notizie accurate di un risanamento sistematico. Inoltre quando, dopo la caduta del muro di Berlino, sono caduti molti segreti, si è avuta notizia che, nonostante sino ad allora tutti i Governi italiani avessero negato la presenza di gas bellici sul territorio nazionale, esistevano almeno tre bunker.

Il più importante di questi era posizionato sul lago di Vico; e sembra che in quella località durante i lavori nel 1996 una nube di fosgene ha raggiunto la strada, aggredendo un ciclista, l'ennesima e ignara vittima europea delle armi chimiche. Solo nel 1997 si è scoperto che l'Esercito tricolore aveva messo da parte almeno 150 tonnellate di iprite del modello più micidiale, mescolata con arsenico. In più c'erano oltre mille tonnellate di adamsite, un gas potentissimo ma non letale, e 40.000 proiettili chimici. Per neutralizzarli è stato creato un impianto modello a Civitavecchia che imprigiona le scorie velenose in cilindri di cemento. Lì i cilindri di cemento all'arsenico, continuano ad aumentare: sono già molte migliaia, in attesa che venga individuato un deposito definitivo dove seppellirli.

La lista dei crimini commessi dall'Italia fascista nella costruzione del suo impero in Africa (Libia, Etiopia, Somalia) è sterminata. Attraverso i commenti di testimoni e storici possiamo risalire ai massacri di civili, alla distruzione di interi villaggi, allo sterminio delle élite intellettuali e politiche, all' uso sistematico di armi chimiche, alla distruzione delle colture e del bestiame per ridurre alla fame la popolazione con una mortalità che arrivò sino al 50 per cento degli internati. Una serie di orrori, incontestabilmente provati da documenti ufficiali e testimonianze di sopravvissuti, con un bilancio, che secondo un documentario prodotto dalla BBC «The fascist legacy» cui hanno dato un contributo storici importanti, di circa 300 mila etiopi e 100 mila libici uccisi.

In Africa gli italiani fecero un ampio impiego degli aggressivi chimici. Usati sporadicamente in Libia, nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel 1930, contro l'oasi di Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera massiccia e sistematica durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle successive operazioni di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia. L'Italia fascista aveva firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque paesi, un trattato internazionale che proibiva l'utilizzazione delle armi chimiche e batteriologiche, ma, come abbiamo visto, neppure tre anni dopo violava il solenne impegno usando fosgene ed iprite contro le popolazioni libiche.

In Etiopia le violazioni furono così numerose e palesi da sollevare l'indignazione dell'opinione pubblica mondiale. Le prime bombe all'iprite furono lanciate sul finire del 1935 per bloccare l'avanzata dell'armata di ras Immirù Haile Sellase, che puntava decisamente all'Eritrea, e quella di ras Destà Damtèu, che aveva come obiettivo Dolo, in Somalia. In tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate su obiettivi militari e civili grandi quantità di bombe con aggressivi chimici. 

Questi crimini furono accuratamente nascosti agli italiani con tutti gli strumenti di cui può disporre una dittatura. E se qualche verità filtrava all'estero, ad esempio sui gas impiegati in Etiopia, il regime reagiva rabbiosamente sostenendo che un popolo che stava portando la civiltà in Africa non poteva macchiarsi di tali infamie.

Molti testimoni italiani di stragi o dell'impiego delle armi chimiche hanno svelato la verità soltanto molti decenni dopo gli avvenimenti e sempre con qualche reticenza. Altri, invece, e sono i più numerosi, non hanno mai testimoniato. I crimini commessi dal regime fascista in Africa sono rimasti spesso non trattati nei libri italiani per la scuola. Nell'anno 2022 l'Italia non ha fatto i conti con questo passato ingombrante.
Alla luce di tali fatti inequivocabili, la nocivita' ambientale non e' solo una conseguenza deleteria del modo di produzione industriale di stampo bellico, ma una strategia di dominio.

Riferimenti:

Gianni Lannes, Il grande fratello. Strategie del dominio, Draco edizioni Modena, 2012.

Gianni Lannes, Italia Usa e getta, Arianna editrice, Bologna, 2014.

Gianni Lannes, Bombe a...mare, Nexus edizioni, Battaglia Terme, 2018.

Marcello Benegiamo, Bussi e la grande chimica in Abruzzo. Un'ambizione fallita, Textus Edizioni, L'aquila, 2013. 

Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, Editori Riuniti, Roma, 2007.

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=iprite

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2014/04/abruzzo-un-secolo-di-avvelenamento.html 

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2014/04/armi-chimiche-due-fabbriche-segrete.html


Post scriptum


La Convenzione di Parigi del 1997, istitutiva dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPAC), prevede, tra l'altro, che la suddetta Organizzazione assicuri l'attuazione della Convenzione, fornisca assistenza e protezione a tutti gli Stati parte vittime di minacce o aggressioni con armi chimiche e promuova la cooperazione internazionale per lo sviluppo della chimica a fini pacifici, nonché attribuisce all'Organizzazione la facoltà di effettuare accertamenti di vario tipo per verificare che gli Stati parte rispettino i prescritti obblighi ed in particolare che distruggano tutte le armi chimiche in loro possesso e non ne producano di nuove.

L'Italia risulta essere in possesso di armi chimiche prodotte prima del 1946. Tali armi avrebbero dovuto essere distrutte nel rispetto di una particolare procedura entro il 31 dicembre 2012. Tuttavia, all'Italia è stata concessa una deroga temporale, per il prosieguo dell'attività di distruzione delle suddette armi, senza la prescrizione di una data stabilita, né a breve né a medio termine. Pertanto l'Italia deve distruggere gli ordigni chimici in suo possesso «nel più breve tempo possibile» fornendo su base volontaria un rapporto riguardante le attività di distruzione. 

L'Organizzazione ha riconosciuto all'Italia per la distruzione delle residue armi chimiche presenti nel territorio nazionale un contributo pari a 3.347.667 euro.

Ai sensi dell'articolo 9 della legge 496 del 1995 «Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinaggio ed uso di armi chimiche e sulla loro distruzione, con annessi, fatta a Parigi il 13 gennaio 1993», come modificata dalla legge 93 del 1997, il Ministero degli affari esteri è designato come autorità nazionale. Secondo quanto disposto dal sopra richiamato articolo 9 presso l'autorità nazionale è istituito un Ufficio di livello dirigenziale che tra le varie competenze è deputato a: a) curare i rapporti con l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonché a mantenere i collegamenti con le Autorità nazionali degli altri Stati Parte e a stipulare gli accordi di impianto; b) promuovere e coordinare le attività delle Amministrazioni competenti; c) presentare annualmente al Ministro degli affari esteri una relazione sullo stato di esecuzione della convenzione e sugli adempimenti effettuati ai fini della sua ulteriore trasmissione al Parlamento entro il 31 marzo di ogni anno; d) ricevere i dati delle Amministrazioni interessate circa la produzione, il possesso, l'utilizzo, il trasferimento, l'importazione, l'esportazione dei composti chimici di cui alla convenzione, nonché quelli relativi al rinvenimento e alla distruzione di armi chimiche; e) informare le Amministrazioni interessate sulla situazione nazionale.

La Convenzione di Parigi, all'annesso 2), parte IV A, punto C - Distruzione, comma 12, per «distruzione di armi chimiche» «intende un processo con il quale i composti chimici sono trasformati in maniera essenziale irreversibile in una forma che non si presta alla produzione di armi chimiche e che rende, in maniera irreversibile, le munizioni ed altri dispositivi inutilizzabili in quanto tali»; la Convenzione prevede:

a) all'Annesso 2; Parte IV A; punto D - Verifica - ispezione e visite - prima della «distruzione» - verifiche, ispezioni e visite degli impianti di stoccaggio da parte di ispettori autorizzati (per impianti di stoccaggio si intendono i luoghi nei quali vengono conservate le armi chimiche);

b) all'articolo IV comma 10 - «ciascuno Stato durante il trasporto, la campionatura, l'immagazzinaggio e la distruzione delle armi chimiche accorderà la massima priorità ad assicurare la sicurezza delle persone e la protezione dell'ambiente - secondo le sue norme nazionali per la sicurezza e le emissioni»;

la Convenzione non prevede controlli nella fase post-distruzione ed agli impianti di stoccaggio dei materiali «distrutti»; dalle leggi di ratifica e dai regolamenti non risultano attribuzioni di sorta ad alcun ministero (esempio ministero dell'ambiente e della tutela del territorio) riguardo ai controlli ambientali nella fase post-distruzione ed agli impianti di stoccaggio dei materiali «distrutti»; in ipotesi, le armi chimiche dopo aver subito il processo definito con il termine convenzionale «distruzione» (più propriamente definito dall'appalto citato di «demilitarizzazione»), possono conservare un potenziale inquinante per l'essere umano e per l'ambiente. 

Quali procedure siano state messe in atto al fine di garantire la tutela ambientale e la sicurezza delle persone, nella fase post-distruzione e nel sito di stoccaggio delle armi chimiche «distrutte»? Qual e'  l'organo o ente o istituzione, nazionale o locale, competente ad esercitare azioni di controllo e monitoraggio dell'aria, della terra e delle acque nei siti dove avviene lo stoccaggio, o meglio l'occultamento e l'abbandono?





 

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