In alto dalle
parti della grotta di San Michele le pecore calavano in silenzio, la massa
bianco sporco rotolava sul pendio, e pareva una slavina giù dal monte dell’angelo guerriero. A dicembre era caduta tanta
neve, e in mezzo alla montagna del sole il gregge si trascinava
verso la candida Mattinata per ripararsi dal freddo e dal vento
insidioso. Gli animali rotolavano nel soffice tappeto farinoso che ammantava boschi e praterie,
dal mare ruggente su fino alle colline più aspre. Cani, pastori, pelame
lanoso
nuotavano affamati verso valle; era una massa liquida e silente. Tutto
lì
taceva. Fu allora che un suono modulato si sentì fluire dalla terra. Era
più di
un richiamo pastorale lanciato con maestria da qualcuno; piuttosto, era
una
cosa antica e senza tempo, che risvegliava le persone, ed era ovunque e
in
nessun luogo. A udirlo nel silenzio più assoluto il gregge si fermò
senza
bisogno di un richiamo, e anche i cani ammutolirono e poi latrarono
lanciando
un eco risonante. Era la voce del luogo che tuonava, quella che avevano
udito
gli esseri viventi, un canto dimenticato nel silenzio transumante.
Svegliato
dal richiamo tra i pini d’Aleppo cantava il Gargano all’unisono sotto la
neve
del generale inverno.
Su questa terra sono approdato, isola nell’isola di pietra, alberi, roccia, acque sotterranee. Nella mia sete di luoghi perduti mi basta per dire che lo sperone d’Italia ha una voce magnifica; e se qualcuno mi chiede che cosa ho visto in questa terra selvaggia, battuta dal maestrale e dallo scirocco, rispondo che mi chiedano piuttosto cosa ho sentito nel mio transumare. A chi domanda immagini a colori rispondo che l’udito è importante perché raggiunge l’anima profonda, e afferra l’indicibile. Così si rianima il concavo polmone della terra, che solo il vento sa far sibilare. Vecchio Gargano nonostante le ferite che ti hanno inferto negli ultimi tempi del disamore corrente, per tentare di strappare le tue radici ctonie, qualcuno ti ha ascoltato con amore, tra la gente e nelle lande più solitarie. Microcosmi così, suonano da sempre in natura e fanno piangere di meraviglia. Il Gargano non è una cartolina turistica, né tantomeno una discarica industriale o bellica.
Viaggio e racconto in arabo antico risultano parole quasi
identiche. E così la musica come il racconto discende da silenzi, meditazioni e
solitudini: è figlia del cammino e di chilometri macinati con il passo del
pastore. Nella mia esistenza di peregrinazioni ho sentito cantar la voce antica
di Gaia, dal mar Glaciale Artico al mar Nero, su fino ai monti naviganti di
Dalmazia. Nel Gargano Oriente e Occidente, da sempre, si incontrano e si
fondono anche nella musica, soprattutto nella cultura e nella geologia. Che
singolare combinazione, quando il mare è mezzo di comunicazione tra popoli
lontani. Ho trovato le identiche melodie - oggi dimenticate dalle moltitudini
distratte - risalenti a mezzo millennio fa, cantate proprio nei Balcani, in
Veneto e nel Gargano.
Se frugo nella memoria risento spesso nel silenzio lo
sciabordio degli scogli di Vieste. Riascolto in una gola dove una volta si aggiravano leggendari briganti, lo
scatarrare verso Sannicandro del treno che s’avvita sulla coppa dell’Ingarano.
Come dimenticare i canti popolari del Venerdì Santo a Vico, in quell’idioma
ruvido impastato di remota Illiria, o la musicalità della lingua peschiciana.
Rivedo sempre il soffice planare delle dune verso Lesina e Varano. Una litania ininterrotta: Cagnano l’anarchica, Carpino terrigna, Ischitella patria della libertà civile di Giannone. Ad ovest scivola il profumo di buon legno a San Marco in Lamis inerpicandosi per la via francigena. E quando si approda a San Giovanni Rotondo le stimmate di padre Pio orientano il cammino, nonostante le speculazioni in gran voga. A Peschici la lingua è melodia che intona il Grecale nella voce delle anime autoctone. A Rodi sono le zagare a rapire l’olfatto del viaggiatore curioso. E ancora mi ricordo molto bene gli amici dell’infanzia, quando giocavamo agli archeologi, esplorando un mondo sconosciuto, poi quasi perduto. Penso alle emozioni senza fine, alle malinconie, ai visi, alle interminabili partite di pallone, al fluire della linfa vitale. Impossibile dimenticare le prime immersioni subacquee nel grande blu, a dieci primavere. A Manfredonia traversano e scorrono sulla tavolozza liquida i pescherecci che sbarcano quando la città è ancora addormentata verso l’alba, proprio così come quando ero bambino. Guardate, lì sul cucuzzolo di Rignano, dall’alto di strapiombi, proprio dirimpetto si affacciano i monti Dauni, dove fa tappa l’arcigna risalita d’Appennino.
La musica è taumaturgica e accomuna gli umani. Lo squillo che parte da questo cammino vorrei che suonasse
la riscossa all’Italia, desse la sveglia ai partigiani assopiti negli anfratti
del Belpaese, in ogni città, in ogni borgo dimenticato dallo Stato (ormai nemico
certificato), e soprattutto indicasse una strada per il bene comune a italiane e italiani.
riferimenti:
Nessun commento:
Non sono consentiti nuovi commenti.