BIOGRAFIA

8.3.14

ILVA DI TARANTO: NICHI VENDOLA E ALTRI 49 PIU' 3 SOCIETA' A PROCESSO





di Gianni Lannes


I tantissimi morti di cancro non potranno resuscitare ma un un minimo di giustizia terrena inizia a intravedersi. Infatti, la Procura della Repubblica di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio nell'ambito dell'inchiesta dell'Ilva del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, del sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, e dei proprietari dell'Ilva, Emilio, Fabio e Nicola Riva. La richiesta di rinvio a giudizio è stata depositata il 6 marzo 2014 alla cancelleria del gup. Al governatore Vendola è contestata la concussione aggravata verso il direttore generale dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, al sindaco Stefano, invece, l'omissione di atti d'ufficio.


il sindaco Stefano & Vendola


Inquinamento quotidiano Ilva a Taranto

Un interrogatorio quello di Vendola caratterizzato da “troppi non ricordo”, che secondo fonti investigative oggi si sono tradotti per il leader di Sinistra ecologia e libertà nella richiesta di rinvio a giudizio. Per il pool di magistrati guidati dal procuratore Franco Sebastio, infatti, Vendola in accordo con Fabio Riva, proprietario della fabbrica, e l’ex potente responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà ha abusato “della sua qualita di Presidente della Regione Puglia” e “mediante minaccia implicita della mancata riconferma nell’incarico” di direttore dell’Arpa Puglia, ha costretto Giorgio Assennato ad “ammorbidire” la posizione della’agenzia regionale di protezione ambientale “nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’impianto siderurgico dell’Ilva s.p.a. ed a dare quindi utilità a quest’ultima, consistente nella possibilità di proseguire l’attività produttiva ai massimi livelli, come sino ad allora avvenuto, senza perciò dover subire le auspicate riduzioni o rimodulazioni”. Vendola si difende: oltre all’ambiente, dice, “abbiamo difeso la fabbrica e i lavoratori: se questo è un reato sono colpevole”.

Assennato con una nota del 21 giugno 2010 aveva suggerito “sulla scorta dei risultati dei campionamenti della qualità dell’aria eseguiti dall’Arpa nell’anno 2009 che avevano evidenziato valori estremamente elevati di benzo(a)pirene, l’esigenza di procedere ad una riduzione e rimodulazione del ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico di Taranto”. Un’ipotesi che aveva mandato su tutte le furie i Riva e lo stesso Vendola che il giorno dopo, il 22 giugno 2010, in un incontro con gli assessori Nicola Fratoianni e Michele Losappio, aveva “fortemente criticato” l’operato dell’Arpa e sostenuto che ‘cosi com’è Arpa Puglia può andare a casa perché hanno rotto…’” ribadendo che “in nessun caso l’attività produttiva dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni”. Non solo. I pm scrivono che dopo sole 24 ore Vendola ha convocato il direttore scientifico dell’agenzia, Massimo Blonda, “per ribadirgli i concetti espressi nell’incontro” del giorno precedente. Infine, il 15 luglio successivo, aveva indetto una riunione informale alla quale hanno partecipato anche i Riva, Archinà e l’allora direttore dell’Ilva Luigi Capogrosso, mentre Giorgio Assennato, “che pure era stato convocato” era stato lasciato fuori dalla stanza e “ammonito dal dirigente Antonicelli, su incarico del Vendola, a non utilizzare i dati tecnici sul benzo(a)pirene come ‘bombe carta che poi si trasformano in bombe a mano’”. Accuse gravi, insomma, per le quali Nichi Vendola rischia di finire sotto processo.
 
Ad 11 indagati la Procura contesta l'associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, a reati contro la pubblica amministrazione, avvelenamento di acque e sostanze alimentari.

Il sedicente ecologista Vendola avrebbe fatto pressioni sull'Agenzia regionale per l'ambiente affinché cambiasse il tiro sull'Ilva. Il tutto sarebbe poi sfociato nel mancato rinnovo dell'incarico ad Assennato in scadenza nel febbraio 2011 a causa delle pressioni esercitate dall'Ilva che contestava duramente l'operato del dg dell'Arpa. Al sindaco di Taranto, invece, si contesta il fatto che dopo l'invio di un esposto alla Procura di Taranto nel quale segnalava i danni da inquinamento e soprattutto le malattie, nessuna azione sarebbe stata messa in campo dall'amministrazione comunale. Ben più pesante l'accusa verso Emilio Riva e i figli Fabio e Nicola: associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale. Emilio e Nicola Riva hanno già scontato un anno di arresti domiciliari, da luglio 2012 a luglio 2013, e ora sono in libertà.



Inquinamento quotidiano Ilva a Taranto - foto Gianni Lannes


Per Fabio Riva invece i giudici inglesi hanno dato parere favorevole alla richiesta di estradizione avanzata dalla Magistratura italiana e ora si è in attesa dell'appello. Fabio Riva è destinatario - nell'ambito della stessa inchiesta sull'Ilva - di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip Patrizia Todisco il 26 novembre 2012 e non eseguita per l'intracciabilità dell'interessato.  

Prestigiacomo & Vendola

Prima delle richieste di rinvio a giudizio, lo scorso 30 ottobre la Procura di Taranto aveva fatto notificare, tramite la Guardia di Finanza, 53 avvisi di conclusione delle indagini. Di questi, 50 riferiti a persone fisiche e tre a società: Ilva, Riva Fire (la capogruppo) e Riva Forni Elettrici. 

il deputato Nicola Fratoianni

Nicastro, Vendola, Pellegrino, Antonicelli

Manna & Vendola
l'assessore Lorenzo Nicastro 


Oltre ai nomi di Vendola e Stefano, ci sono, con imputazioni differenti, anche quelli dell'attuale assessore regionale all'Ambiente,  Lorenzo Nicastro (magistrato in aspettativa della procura della Repubblica di Bari, eletto con l'Idv), dell'ex assessore regionale e oggi deputato di Sel, Nicola Fratoianni, di diversi dirigenti regionali, tra cui l'ex capo di gabinetto di Vendola, Francesco Manna, dell'attuale capo di gabinetto, Davide Pellegrino (marito di Paola Laforgia, ex presidente dell'ordine dei giornalisti di Puglia) , e del dirigente del settore Ambiente della Regione Puglia, Antonello Antonicelli.

Secondo l'accusa, la famiglia Riva avrebbe tessuto una rete di rapporti con i politici, finanziandoli, per evitare l'accusa per disastro ambientale. Ambiente e salute in vendita. «Andiamo verso il primo processo a Taranto che non riguarda solo l'inquinamento, ma che ha come novità il connubio fra inquinatori e politica», dichiara Alessandro Marescotti, presidente PeaceLink, in merito alla questione Ilva.

«Nichi Vendola ed Emilio Riva vanno processati insieme per il disastro ambientale di Taranto». È questa la conclusione alla quale sono giunti i magistrati jonici. Così, a un anno e mezzo dalle prime manette e dal clamoroso sequestro dei reparti dell'area a caldo, nello stesso calderone giudiziario sono rimaste la politica e la grande industria.
La richiesta di rinvio a giudizio è stata firmata dal procuratore capo Franco Sebastio e dal pool che si è occupato delle indagini (l'aggiunto Pietro Argentino, i sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano) e coinvolge i cinquantatré indagati, ai quali, lo scorso 30 ottobre, è già stato notificato l'avviso di chiusura indagini.

Il patron dell'azienda, i suoi figli e i suoi collaboratori, con in prima fila l'ex responsabile delle pubbliche relazioni, Girolamo Archinà, sono accusati di aver tramato nell'ombra, aggirando gli investimenti per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica tarantina in nome del profitto e a spese della salute dei cittadini.

La politica, a cominciare da Nichi Vendola, è accusata di aver fatto da sponda, di aver far fatto finta che nulla stesse accadendo. Il governatore pugliese è indagato per concussione, per le presunte pressioni che avrebbe attivato sul direttore dell'Agenzia regionale per la prevenzione e protezione dell'ambiente (Arpa), Giorgio Assennato. Vendola, secondo i pm, avrebbe rimproverato all'Arpa, l'atteggiamento troppo rigido verso l'Ilva, al punto di ventilare la sua mancata conferma alla guida dell'agenzia regionale. Sul banco degli imputati, però, la procura tarantina intende spedire anche il consigliere regionale del Pd, Donato Pentassuglia, nonché l'ex presidente della provincia Gianni Florido, arrestato durante le indagini, perché sospettato di aver fatto di tutto per agevolare i Riva con l'autorizzazione di una discarica all'interno dello stabilimento. Richiesta di rinvio a giudizio anche, per il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, accusato di abuso e omissione in atti di ufficio, perché non si sarebbe adoperato con le necessarie misure per tutelare la salute dei tarantini.

Quello che si sta per aprire a Taranto, per gli ambientalisti, è uno dei più importanti processi della storia della Repubblica italiana, «un processo - dice il leader dei Verdi Angelo Bonelli - in nome del `popolo inquinato´ e ingannato dalla politica e dalle istituzioni». Un processo «nei confronti di chi - aggiunge - ha inquinato e di chi ha permesso che ciò avvenisse», provocando una devastazione con veleni riversati nell’acqua, nell’aria, nella terra e nel cibo.

Un fatto gravissimo, passato, però, inosservato. «Nessuno si dimette. Nessuno chiede le dimissioni. Tutto sta avvenendo in un clima surreale. È come se fossero venute meno, nei partiti (di cui Florido, Vendola e Stefàno sono espressione) le difese immunitarie e la stessa capacità di indignazione. Oggi assistiamo alla fine ingloriosa di un sistema di potere. Auspichiamo che altre città inquinate seguano l'esempio di Taranto e che altre Procure indaghino sui disastri ambientali. Taranto è la punta di un iceberg. Fermo restando la presunzione di innocenza, tutto questo non potrà non avere conseguenze, se le ipotesi di reato venissero confermate in tutto o in parte. Per questo sosteniamo con convinzione l'azione della magistratura, senza la quale a Taranto avrebbero vinto le logiche dei poteri forti», dichiarano i rappresentanti di PeaceLink.

«Se è vero che sono indagato sulle vicende dell'Ilva, mi dimetto», aveva dichiarato il sindaco Stefàno il 27 aprile del 23. Ora è un imputato. Che farà?

Un altro processo già  in corso. A far luce sulla vicenda, forse, solo la magistratura. La sentenza prevista per il 23 maggio prossimo, dovrà fare chiarezza, anche, sulla morte di ventuno operai deceduti tra il 2004 e il 2010 per "mesotelioma pleurico" dovuto, secondo l'accusa, all'ingente presenza di fibre d'amianto presenti all'interno della fabbrica. Per la Procura di Taranto, gli imputati omettevano «di adottare cautele che secondo l'esperienza e la tecnica sarebbero state necessarie a tutelare l'integrità fisica dei dipendenti oltre ad altre adeguate misure di prevenzione ambientali e personali» per ridurre la diffusione di polveri dannose. Gli operai, quindi, sarebbero stati «ripetutamente esposti ad amianto durante lo svolgimento di attività lavorative» tanto, secondo l'accusa, da ammalarsi mortalmente.

Nella stessa inchiesta sono confluiti i fascicoli riguardanti due incidenti sul lavoro mortali, per i quali un gruppo di dirigenti Ilva risponde di omicidio colposo e omissione di cautele sui luoghi di lavoro. Gli incidenti sono quelli che provocarono la morte di Claudio Marsella, operaio del movimento ferroviario, travolto da un locomotore, il 30 ottobre 2012, e di Francesco Zaccaria, gruista volato giù in mare da sessanta metri con la sua cabina nell'area Impianti marittimi il 28 novembre 2012 al passaggio di un tornado.

Quattro anni e sei mesi di reclusione richiesti dal pubblico ministero Raffaele Graziano nei confronti di Emilio Riva, ottantasettenne ex proprietario dell'Ilva di Taranto, del figlio Fabio e dell'ex direttore della fabbrica Luigi Capogrosso. A rischiare la condanna anche Giorgio Zappa, direttore generale dell'ex Italsider, poi, passato a Finmeccanica, Francesco Chindemi attuale amministratore delegato della Lucchini.

 

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