di Gianni Lannes
Quei contadini pugliesi che si convertirono all’ebraismo nel momento in cui scattarono le persecuzioni antisemite. Il
giorno della memoria. rimossa ma non estinta. ‘Italya’ in ebraico vuol
dire “isole delle meraviglie”. E ‘Negba’ nell’antico idioma significa
“verso Sud”. Appunto: in direzione di una pagina memorabile del
Mezzogiorno sconosciuta o quasi. Quei ‘cafoni’ del Gargano si convertono
all’ebraismo proprio nel momento in cui entrano in vigore le
persecuzioni antisemite. Essere ebrei poteva essere soltanto un destino
non una scelta. E invece. Addirittura braccianti e artigiani, allo
stremo per la fame osano, mettere al sicuro, sotto il naso dei nazisti,
giovani ebrei fuggiti dalla Toscana e aiutano sfacciatamente quelli al
confino.
Data cruciale: 31 ottobre 1943. Una jeep con due soldati dell’Ottava armata britannica di Montgomery percorre la strada accidentata che da San Severo porta a Cagnano Varano. Passando all’interno del centro abitato di San Nicandro i soldati notano una donna che, da una finestra, sventola una grossa bandiera con la stella di David: il medesimo simbolo dipinto sul cofano del veicolo militare. I due ufficiali - ebrei della Palestina, allora sotto amministrazione britannica - si fermano ad investigare e scoprono la storia di una conversione straordinaria anche per quei tempi.
In un clima di feroce sospetto per la diversità che sarebbe sfociata nel 1938 nelle leggi razziali, un gruppo di cinquanta famiglie contadine del Gargano abbracciò spontaneamente la religione ebraica. Nella montagna del sole tornò alla luce del sole dopo 500 anni, una religione messa al bando.
La Puglia un tempo pullulava dei figli di Abramo che hanno ben mimetizzato segni di fede ed impronte culturali.
La comunità tuttavia non è morta. Ha saputo trasmettersi attraverso tre generazioni, soprattutto grazie alle donne. “La cosa bella è che i nostri antenati manifestano apertamente la loro fede senza mai nascondersi di fronte al pericolo. Abbiamo ottimi rapporti con la terra d’Israele”, racconta dall’interno della minuscola sinagoga di San Nicandro Garganico, Grazia Gualano, 26 anni, “Noi siamo alla ricerca delle nostre radici, aperti al dialogo, alla conoscenza dell’altro, al rispetto reciproco”.
All’inizio del 1939 Francesco Cerrone, un calzolaio fra i più attivi dei convertiti, viene convocato alla caserma dei carabinieri. Cerrone, per sua fortuna, doveva possedere un certo acume politico: quando gli fu chiesto se era “ebreo o cristiano”, rispose: “Noi siamo italiani e adoriamo il Dio Unico e ci riposiamo il sabato come Dio e il Duce ci hanno detto di fare”. Il medesimo atteggiamento da parte dei figli di Levi -come si chiamarono fra di loro- continuò negli anni della guerra.
Fu la geografia e sicuramente la fortuna a salvarli, poiché a poche decine di chilometri, proprio ai piedi del promontorio garganico, precisamente alla periferia della città di Manfredonia, in riva all’Adriatico, fu allestito segretamente in un macello per animali da allevamento, un perfetto campo di internamento. “Perché, da dove sorge questo desiderio, questo bisogno di non cedere, questa mancanza di paura, questa crescente esigenza di ostentare la loro fede nel Dio d’Israele?” argomenta Elena Cassin, esperta di civiltà mesopotamiche “Ci si può domandare perché questi uomini e queste donne hanno sfidato pericoli gravissimi per sé e i loro figli, perché, proprio in un momento di grande pericolo per gli ebrei italiani, il loro desiderio di far parte del popolo ebraico, che era diventato un popolo di paria, si manifesta con tanta forza. C’erano ebrei che avevano cercato di fuggire da quel ginepraio, c’erano stati perfino degli ebrei, casi molto rari, che avevano ottenuto di essere dichiarati ariani onorari”.
Nella montagna del sole a guidare questa gente c’era Donato Manduzio, un contadino con 45 primavere sul groppone, invalido di guerra e organizzatore di spettacoli paesani (‘I reali di Francia’, ‘Il conte di Montecristo’). Lui ebbe una prima visione. Correva il 10 agosto dell’anno 1930. Nei suoi diari si legge: «Mi trovavo nell’oscurità e sentivo una voce che mi diceva: ‘Ecco, vi porto una luce’. Ho visto, nelle tenebre un uomo che teneva in mano una lanterna spenta che non illuminava. E gli dissi ‘Perché non accendete la lampada che avete in mano?’. E l’uomo disse: ‘Non posso, non ho fiammiferi. Ma voi ne avete’. Allora ho guardato la mia mano e, infatti, tenevo un fiammifero già acceso». Il giorno seguente, un ragazzo si reca da lui con una Bibbia in mano, regalatagli da un protestante. Manduzio si mette a leggere e subito «una luce si accese nel mio cuore». Donato Manduzio pensava di aver riscoperto una religione morta. Quando si mise a leggere il Pentateuco e quando ordinò ai suoi seguaci di chiamarlo Levi, Manduzio credette che il popolo ebreo fosse scomparso da secoli. Solo un anno dopo la prima visione, quando aveva già riunito un piccolo gruppo intorno a sé per celebrare la nuova religione a modo suo, usando il Vecchio Testamento con ulteriori suggerimenti fornitigli da un susseguirsi di sogni profetici, un venditore ambulante gli riferì che “le città sono piene di quel popolo”. Manduzio allora scova l’indirizzo del capo rabbino di Roma e gli scrive una cartolina per dire che lui, cattolico di nascita, ha rifondato una religione che però sembra esista ancora, e perciò sarebbe molto grato se il rabbino potesse riconoscere formalmente questa sua conversione, nonché quella dei suoi seguaci. Il messaggio sembra uno scherzo e finisce nel cestino.
A quell’epoca, erano già iniziate le prime provocazioni ai danni delle autorità ebraiche. Ma Manduzio insiste: è un uomo determinato e anche intelligente che ha imparato a leggere e scrivere da soldato durante la prima guerra mondiale. Ritornerà dalle trincee del Carso istruito, ma anche malato: una misteriosa ferita -o forse una malattia- gli impedisce di lavorare nei campi e viene riconosciuto come invalido di guerra. Negli anni Venti arrotonda la pensione facendo il guaritore e organizzando degli spettacoli durante le interminabili notti d’inverno. Aveva un autentico talento come narratore di epiche popolane: il suo racconto de ‘Il Conte di Montecristo’ durava intere serate, coinvolgendo come attori, un gruppo di amici, per i quali aveva confezionato dei costumi di carta. In una delle rare fotografie di Donato, lui appare lindo, lucido, con due occhioni neri, irresistibili.
Quando nel 1930 decide di abbandonare la magia e dedicarsi alla religione, aveva già numerosi proseliti pronti a seguirlo. Un’aspirante profeta, dunque, aveva parecchi spunti per una religione fai-da-te. Nonostante la sua scelta decisa della religione ebraica come unica fonte di verità, Manduzio non accettava tutti gli optional. Aveva un’avversione, per esempio, per il Talmud, che considerava, grazie a un’altra visione, un tradimento ritualista e giuridico della legge mosaica.
Un mese più tardi la spedizione della prima cartolina, non avendo ottenuto risposta, Manduzio scrive una lettera lunga e dettagliata al rabbino di Roma. Questa volta lui risponde, ma è ancora diffidente: vuole sapere come mai si sono messi in testa di abbracciare il giudaismo in una paese dove non c’erano ebrei e dove il giudaismo come pratica di vita doveva essere totalmente ignoto. A differenza delle molte sette evangeliche che andavano a caccia di anime nella Puglia di quegli anni, l’ebraismo non ne aveva mai cercate. Anzi, spiegava il rabbino Sacerdoti: «l’ebraismo solo eccezionalmente accetta proseliti», anche perché «considera che la vita futura non è appannaggio esclusivo degli ebrei». Manduzio, tuttavia, si impone e viene mandato il primo di una serie di emissari, un pò per guidare, un pò per controllare il gruppo.
Nel 1936 arriva Raffaele Cantoni, rappresentante del nuovo rabbino di Roma, Davide Prato. Cantoni distribuisce 22 taledoth - gli scialli portati dagli ebrei maschi durante la preghiera - e inaugura una sinagoga in una casa affittata - dopo mille peripezie - a tale scopo. La sinagoga, però, non riceve l’autorizzazione del Ministero degli Interni e nello stesso periodo le autorità fasciste cominciano ad interessarsi del gruppo di San Nicandro.
I visitatori di casa Manduzio vengono tenuti sotto stretto controllo dai carabinieri; e si scomoda pure l’Ovra -la polizia segreta fascista. Quando il rabbino capo di Roma cerca di salvare Manduzio e i suoi dalla tempesta imminente, spiegandogli che siccome la loro conversione «non è mai stata legalizzata» possono benissimo anche esentarsi dal considerarsi ebrei, Manduzio gli scrive indignato una missiva firmata da tutti gli uomini e le donne della comunità.
Prima di morire Manduzio vide realizzarsi il suo desiderio più forte: nell’agosto del 1946, il rabbino di Ravenna è inviato a San Nicandro per preparare la circoncisione collettiva che avrebbe segnato l’integrazione definitiva dei figli di Levi nella comunità ebraica italiana.
Dieci giorni dopo la circoncisione ebbe luogo la Tebilah -il bagno rituale- che si svolse sulla spiaggia di Torre Maletta.
Il seme non si è estinto ma ha dato i suoi frutti. La scomparsa di Manduzio, nel 1948, apre le porte all’emigrazione nella Terra promessa. I primi a partire sono i due figli di Ciccillo Cerrone (il calzolaio) che si imbarcano a Bari e si arruolano nell’ Haganà (all’epoca della prima guerra tra arabi ed ebrei). Dopo fu un esodo.
Nel cimitero del paese una lapide di marmo grigio reca questa iscrizione, tra due maghen-David: «Donato Manduzio nacque nel 1885 e visse nell’uso del paganesimo fino al 1930, ma l’11-8 corrente anno per ispirazione divina fu chiamato da Dio col nome di Levi cioè sacerdote, e bandì in questa roccia tenebrosa l’unità di Dio e il riposo del sabato. Morto il 15-3-1948».
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