Un invito alla lettura per sciogliere il pensiero dai vincoli dei luoghi comuni e stimolare una percezione diversa della realtà, dell'ecologia, della vita, dello spazio, del tempo e del corpo umano. «La iatrogenesi è clinica quando il dolore, la
malattia e la morte sono il frutto di cure mediche; è sociale quando le
politiche sanitarie rafforzano un'organizzazione industriale che genera
malessere; è culturale e simbolica quando un comportamento e una serie di
illusioni promossi dalla medicina restringono l'autonomia vitale degli
individui insidiando la loro capacità di crescere, di aver cura l'uno
dell'altro e di invecchiare, o quando l'intervento medico mutila le possibilità
personali di far fronte al dolore, all'invalidità, all'angoscia e alla morte».
Parola di Ivan Illich: il famoso saggio è stato pubblicato nel 1976, ma è d’attualità
visto il dilagare del totalitarismo vaccinale. Ivan Illich (scomparso nel 2002) è stato
uno di quei rari pensatori che riescono a mantenersi sempre coerenti tra ciò
che affermano e ciò che fanno nella vita.
Il bersaglio degli scritti di Illich,
indipendentemente dall’argomento specifico che aveva scelto di approfondire, è
sempre stata la produttività, l’ideologia dello sviluppo affermatasi nel mondo
industriale. La sua analisi ha toccato gli effetti del produttivismo su educazione
e salute, i meccanismi di esclusione degli individui attraverso l’istituzionalizzazione
della vita. La sua opera, per essere compresa, va letta tutta insieme: la
medicina, la scuola, il lavoro, i trasporti e tutte gli altri “strumenti” vanno
studiati in quanto ci fanno comprendere le contraddizioni ed i paradossi delle
società contemporanee, ormai sempre più globalizzate. Sono sintomi diversi
della stessa malattia. In un’intervista immediatamente successiva alla pubblicazione in Italia di
Nemesi Medica, lo stesso Illich ha affermato (a cura di L. Bovo e P.
Bruzzichelli: Illich risponde dopo “Nemesi medica”, pagg. 24-25, Cittadella
Editrice, Assisi 1978):
”Mi sono occupato di medicina soprattutto per
illustrare una tesi economica […] Per me dunque Nemesi Medica non è un libro di
medicina, ma un libro che vuole spingere a un’analisi tendente a rovesciare
l’attuale nostro modo di vedere la realtà politico-economica […]” Per
accrescere la salute dell’uomo la medicina non basta: questa, superato un certo
limite, diventa addirittura dannosa. E questo vale per ogni istituzione ed ogni
strumento “dominante”.
«Ovunque si posi l’ombra della crescita economica,
noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o se non siamo impegnati a
consumare; il tentativo di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso
senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerato una bizzarria
anarchica». Illich parla di modernizzazione della povertà, la quale produce
come effetto il fatto «che la gente non è più in grado di riconoscere
l’evidenza quando non sia attestata da un professionista, sia egli un
meteorologo televisivo o un educatore; che un disturbo organico diventa intollerabilmente
minaccioso se non è medicalizzato mettendosi nelle mani di un terapista; che
non si hanno più relazioni con gli amici se non si dispone di veicoli per coprire
la distanza che ci separa da loro (e che è creata prima di tutto dai veicoli
stessi).” (Ivan Illich, Per una storia dei bisogni, pagg. 9-10, Arnoldo
Mondadori, Milano 1981).
La liberazione totale della singolarità di ogni
individuo a prescindere dalla sua
cultura, dal suo reddito, dal suo ruolo nel sistema produttivo. L’intento di
Illich è dunque quello di offrire una critica della società contemporanea a
tutto tondo, a partire dall’ideale della produttività che caratterizza tutte le
istituzioni, portandole ad uno stato paradossale. Non solo la medicina, dunque,
ma anche la scuola, i trasporti, le abitazioni, la Chiesa, il sistema politico e
così via.
Bisogna sottolineare che in Illich non c’è solo
una critica, ma troviamo anche una proposta, forse utopica, ma comunque
affascinante: la convivialità, che egli ha
sicuramente tentato, riuscendovi, di realizzare nella sua vita.
In Nemesi medica Ivan Illich propone una
riflessione radicale sulla medicina e sull'estensione del suo potere sulla
società. Il saggio si apre con un'affermazione che pare sconcertante: "La
corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute". Un
pensiero che va contro tutto quello che si crede comunemente e che inverte la
fede diffusa nella bontà e nella necessità - in ogni caso - della medicina. Il
discorso di Illich, invece, verte sulla iatrogenesi, di cui sottolinea tre
aspetti, simili a tre livelli di una piramide. Al livello più elementare si ha
iatrogenesi clinica tutte le volte in cui l'applicazione di cure mediche, lungi
dal guarire l'individuo dalla malattia, funzionano a loro volta da agenti
patogeni. Spesso, infatti, sono farmaci, medici e ospedali a causare malattie
di vario tipo, ancora più di batteri, virus o altre cause note.
A un secondo livello c'è, secondo Illich, la
iatrogenesi sociale, in cui la medicina promuove malessere e rafforza una
società morbosa che spinge a consumare medicina curativa, preventiva o de
lavoro. Questo secondo livello di iatrogenesi si manifesta attraverso i sintomi
di supermedicalizzazione sociale, quando la cura della salute si tramuta in un
articolo standardizzato, come se fosse un prodotto industriale. A questo
livello la medicina si arroga l'autorità e la pretesa di stabilire che cosa è
la malattia e chi è il malato: di questo ho già parlato altrove e qualcun altro
lo ha fatto anche meglio di me, ma qui Illich ribadisce il concetto, chiarendo
che ogni civiltà definisce le sue malattie, stabilendo inoltre che cosa è
"deviante" rispetto al concetto di salute. Questa definizione non è
mai priva di connotazioni politiche e, infatti, la medicalizzazione del
malessere dell'individuo (ridefinito come paziente) "ha come risultato la
castrazione politica della sua sofferenza". Si addossa, insomma, alla
malattia individuale la colpa della sofferenza e si spuntano le armi
dell'individuo, che, reso ottuso, viene privato della capacità di intervenire
nel mondo e modificare ciò che gli provoca disagio (per esempio,
un'organizzazione disumana del lavoro). Parte della iatrogenesi sociale è anche
l'imperialismo diagnostico - così definito da Illich -, per effetto del quale
tutta la vita di un individuo, nei suoi vari periodi, si scompone in una serie
di segmenti di rischio, che devono sempre essere sottoposti a supervisione
medica. E' interessante, per esempio, l'osservazione per cui una certa diagnosi
influenza la risposta del paziente, assegnandogli un certo ruolo: si presume
che l'opinione del medico sia "autorevole" e questa autorevolezza non
ha un effetto neutro su chi ascolta il parere medico. Pagine molto acute sono
riservate, in questa seconda parte dedicata alla iatrogenesi sociale, alla
medicalizzazione del bilancio, riguardo al quale Illich va assolutamente
controtendenza. Le cure mediche essenziali, afferma, possono essere prestate
anche da persone non specializzate, sono facili da apprendere e costano poco,
mentre l'iperspecializzazione ha un costo altissimo e, inizialmente destinata a
pochi, si pretende che venga estesa a sempre più gente, senza che ve ne sia
reale necessità, provocando, appunto, una progressiva medicalizzazione dei
bilanci statali.
Il terzo livello di iatrogenesi - a cui Ivan
Illich dedica la terza parte del saggio - è la iatrogenesi culturale che,
secondo il filosofo, ha inizio quando l'impresa medica «distrugge nella gente
la volontà di soffrire la propria condizione reale». Illich afferma che la
civiltà medica ha ridotto il dolore a problema tecnico e lo ha privato del
significato personale, poiché il dolore sarebbe il sintomo di un confronto con
la realtà e non può essere "oggettivamente misurabile" e trattato
allo stesso modo per tutti. Il dolore, insomma, è unico e appartiene solo al
soggetto senziente: il dolore degli altri noi lo supponiamo, ma non lo
sentiamo, il che crea la consapevolezza di una solitudine estrema. La medicina,
invece, pretende di obiettivare il dolore e le sfugge il risvolto personale
della sofferenza. Questo è sicuramente esatto, ma che cosa accade quando
l'individuo (malato o sofferente) non assegna alcun valore al proprio dolore?
In questo caso l'individuo deve essere costretto a trovare, a tutti i costi, un
significato alla propria sofferenza? Dopo il dolore, Illich affronta, in una sorta
di excursus, la storia dell'invenzione dell' "ospedale", da luogo che
inizialmente raccoglieva gli incurabili e non era certamente la norma, fino
alla sua forma odierna, ovvero quella di «un'officina di riparazione a
compartimenti stagni». Con la penetrazione della nuova civiltà medica
metropolitana, inoltre, si crea anche una nuova immagine della morte. Per
descriverla, Illich ne racconta un po' l'evoluzione, partendo dalla "danza
dei morti" del quattordicesimo secolo, in cui ogni individuo, in ogni
momento, "danzava" con la propria mortalità. Nei secoli seguenti, il
povero che muore non è mai assistito e, al massimo, il medico ha il compito di
riconoscere la "facies hippocratica", ovvero i tratti tipici che
indicano che il paziente sta per morire. Solo alla fine del diciassettesimo
secolo si diffonde una nuova mentalità e l'illuminismo attribuisce un nuovo
compito al medico, il quale si trova così a "lottare" al capezzale
del paziente con malattie che, talvolta, vengono rappresentate in maniera
personificata. La lotta contro la morte finisce per diventare un "diritto
civile" e compito del medico è quello di salvare vite umane, anche quando
dovrebbe invece riconoscere che non c'è più nulla da salvare. Da qui deriva non
solo la possibilità (abbastanza irrealistica) di curare da tutte le malattie e
di sconfiggere la morte, ma anche, con un salto logico, l'obbligo di essere
curati e di accettare di buon grado le cure dei medici. L'uomo occidentale,
secondo Illich, ha perso il diritto di presiedere all'atto di morire e viene
espropriato della libertà di scelta su di sé e sulla propria salute. Illich
auspica invece che «nessuna assistenza dovrà essere imposta a un individuo
contro la sua volontà: nessuna persona, senza il suo consenso, potrà essere
presa, rinchiusa, ricoverata, curata o comunque molestata in nome della salute».
Illich sostiene infine che la medicina non è una
scienza qualsiasi, ma si trova su una linea di confine. Il metodo scientifico
fa esperimenti su dei modelli, mentre la medicina li fa direttamente sugli
stessi pazienti, ma Ïsul vissuto significativo della guarigione, della
sofferenza e della morte, la medicina non ci dice più di quanto l'analisi
chimica ci dica riguardo al valore estetico di una ceramica». Ogni cura non è
che la ripetizione di un esperimento, con una probabilità di successo definita
statisticamente, mentre più importante sarebbe il recupero dell'autonomia
personale. Insomma: «La società che sa ridurre al minimo l'intervento
professionale offre le migliori condizioni per la salute».
Negli ultimi dodici anni Illich - che tenne l’ultima
sua conferenza a Lucca - soffrì di un tumore che lo sfigurò ma per il quale
rifiutò assistenza medica.
riferimenti:
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