di Gianni Lannes
Adesso in via ufficiale il crollo dei prezzi è
attestato al 48 per cento: infatti dal dicembre 2014 al febbraio 2017 sono
passati da 38,25 a 19,97 euro al quintale, grazie ai continui sbarchi incontrollati di
mercantili pieni di frumento spesso inquinato dalla chimica e contaminato anche
dalla radioattività proveniente dall’estero. Si tratta di prezzi largamente al di sotto dei
costi produttivi, che determinano perdite fino al 50 per cento. Senza un freno immediato alle importazioni
«spregiudicate» dall'estero, il rischio che si corre è quello di una
progressiva marginalizzazione della produzione di grano, in un Paese che,
paradossalmente, esporta il 50 per cento della pasta che produce. A rischio non
ci sono solo la produzione di frumento, i lavoratori in essa occupati e l'indotto
della filiera, ma anche un territorio di due milioni di ettari, il 15 per cento
del territorio nazionale a rischio desertificazione.
L'Accordo economico e commerciale globale (Comprehensive Economic and Trade Agreement) prevede oltretutto l’azzeramento totale
dei dazi sul grano duro, il prodotto canadese di pessima qualità, imbottito di
glifosato, più importato nel belpaese. La cosiddetta unione europea è per il
Canada il secondo partner commerciale
dopo gli Stati Uniti d’America. e rappresenta quasi il 10 per cento del suo
commercio estero. Un rapporto squilibrato, considerato che per l’Europa il
Canada è dodicesimo nella classifica dei rapporti commerciali. Tale scellerato
patto affaristico, comunque, dovrà ora essere approvato dai parlamenti
nazionali, anche se purtroppo entrerà in vigore provvisoriamente il primo
aprile prossimo.
Soprattutto la Puglia e la Sicilia - maggiori
produttrici di grano duro - rischiano di risultare gravemente danneggiate, se
non ci sarà la ratifica e l’entrata in vigore dell’etichettature di origine
obbligatoria per il grano usato per produrre la pasta. La Puglia vanta una produzione di 12.733.110
quintali e un territorio che ha 352 mila ettari coltivati a grano duro ed
elevati livelli qualitativi per i consumatori garantiti dalla produzione made in Italy. Da qui la necessità
improrogabile di accelerare l’iter di entrata in vigore della legge sull’etichettatura
obbligatoria per fare la pasta, che risponde alle richieste di 8 italiani su 10
che la ritengono necessaria per smascherare l’inganno del prodotto straniero
spacciato per italiano in una situazione in cui un pacco di pasta su tre contiene
prodotto straniero senza che si sappia. Vero Barilla, De Cecco, Casillo, Divella?
Il nostro Paese è di gran lunga il primo
produttore di grano duro (di alta qualità) in Europa con una superficie coltivata
di 1,3 milioni di ettari e una produzione stimata nel 2016 di quasi 5 milioni
di tonnellate, e si contende con il Canada, su base annuale, il primato
mondiale. In molte zone d'Italia il grano duro non ha alternative colturali e
la sua coltivazione contribuisce in maniera importante al miglioramento economico
e sociale di tali aree rurali, nonché alla valorizzazione del paesaggio e alla
difesa idrogeologica del territorio.
Il crollo dei prezzi del grano italiano, rispetto
allo scorso anno, ha causato agli agricoltori perdite per circa 700 milioni di
euro; i compensi sono tornati ai livelli di 30 anni fa, a causa anche delle
manovre speculative di chi fa acquisti di grano sui mercati esteri da
trasformare poi in pasta o pane made in Italy.
Infatti, vi è una importazione sempre più massiccia di grano straniero, che crea danni devastanti alla produzione nazionale, ai livelli qualitativi assicurati e all'occupazione; si rischia, infatti, di perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro. Nei primi due mesi del 2017 gli arrivi di grano in Italia sono aumentati del 10 per cento; l'industria alimentare nel 2016 ha moltiplicato le importazioni di grano straniero: quintuplicate dall'Ucraina e raddoppiate dalla Turchia. Ad esempio: si registra un +315 per cento dell'importazione dall'Ucraina di grano tenero (per il pane), mentre il Canada resta in testa per le spedizioni di grano duro (per la pasta); in pericolo non ci sono solo la produzione di grano e l'attività di oltre 300 mila aziende agricole che lo coltivano, ma anche un territorio di 2 milioni di ettari - il 15 per cento dell'intero territorio nazionale - a rischio desertificazione e gli alti livelli qualitativi per i consumatori garantiti dalla produzione made in Italy.
Infatti, vi è una importazione sempre più massiccia di grano straniero, che crea danni devastanti alla produzione nazionale, ai livelli qualitativi assicurati e all'occupazione; si rischia, infatti, di perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro. Nei primi due mesi del 2017 gli arrivi di grano in Italia sono aumentati del 10 per cento; l'industria alimentare nel 2016 ha moltiplicato le importazioni di grano straniero: quintuplicate dall'Ucraina e raddoppiate dalla Turchia. Ad esempio: si registra un +315 per cento dell'importazione dall'Ucraina di grano tenero (per il pane), mentre il Canada resta in testa per le spedizioni di grano duro (per la pasta); in pericolo non ci sono solo la produzione di grano e l'attività di oltre 300 mila aziende agricole che lo coltivano, ma anche un territorio di 2 milioni di ettari - il 15 per cento dell'intero territorio nazionale - a rischio desertificazione e gli alti livelli qualitativi per i consumatori garantiti dalla produzione made in Italy.
Da pochi centesimi al chilo concessi agli
agricoltori dipende la sopravvivenza della filiera più rappresentativa del made
in Italy, mentre dal grano alla pasta i prezzi aumentano di circa del 400 per
cento e quelli dal grano al pane addirittura del 1.450 per cento. Esiste un
problema importante che incide notevolmente sulla crisi del settore, ovvero la
mancanza dell'obbligo di indicare in etichetta l'origine del grano impiegato
nella produzione; è necessario provvedere a mettere in atto misure che tutelino
sia i produttori che i consumatori per poter restituire un futuro al grano
italiano: l'obbligo di indicare in etichetta l'origine della materia prima
utilizzata nella pasta e nei derivati/trasformati; l'indicazione della data di
raccolta (anno di produzione); il divieto di utilizzare un prodotto
extracomunitario oltre i 18 mesi dalla data di raccolta; infine, l'esigenza di
fermare le importazioni selvagge a dazio zero; non è accettabile il fatto che
il primo fornitore di grano duro dell'Italia quale è il Canada possa esportare
a dazio zero, mentre applica una aliquota fino all'11 per cento all'ingresso della
pasta in arrivo dall'Italia sul proprio territorio. È anche necessario
estendere i controlli al 100 per cento degli arrivi da Paesi extracomunitari
come l'Ucraina dove incombe l’inquinamento radioattivo certificato dall’IAEA, e
sono utilizzati prodotti e fitosanitari vietati da anni in Italia ed in Europa.
In una dozzina di porti italiani continuano a
giungere navi importatrici di grano che oltre a contribuire alla diminuzione
del prezzo, hanno anche problemi di tracciabilità e salubrità del prodotto importato;
la priorità italiana deve essere quella di agevolare la produzione di qualità e
tutelare il reddito di chi produce e valorizza il grano 100 per cento italiano.
Le quotazioni del grano duro sono ormai ben al di
sotto dei 20 euro al quintale (le produzioni biologiche non superano i 25/26
euro) e testimoniano una tendenza che dal 1988 ha visto comprimersi la
redditività a fronte di costi di produzione, al contrario, in progressiva crescita.
Inoltre, la dipendenza dalle importazioni ha esposto l'andamento dei prezzi agli
squilibri internazionali dei mercati cerealicoli. Nonostante questo non si è
rilevato alcun beneficio per i consumatori finali sui prezzi di vendita dei
prodotti lavorati.
Nella campagna 2013 sono stati poco meno di 7.500
gli ettari destinati alla moltiplicazione di sementi con metodo biologico, per
le specie soggette a certificazione obbligatoria, appena il 3,9 per cento della
superficie nazionale (quasi 193.000 ettari nel complesso). In cinque anni le
superfici destinate alla produzione di sementi biologiche sono quindi diminuite
del 30 per cento, visto che nel 2009 erano 10.600 ettari, il 5,3 per cento del
totale. Lo rivelano le statistiche pubblicate dal Cra-Scs, l'organo di certificazione
ufficiale delle sementi; le flessioni maggiori nella moltiplicazione in bio
hanno toccato alcune delle colture portaseme più significative, come il
frumento duro (-58 per cento della superficie dal 2009), la veccia (-60 per cento)
e il frumento tenero (-17 per cento); i dati del CRA-SCS (ex ENSE) sulla
contrazione della produzione di sementi biologiche confermano che lo strumento
della deroga, soprattutto se gestito con scarso rigore, allontana le aziende
sementiere dal settore. «Non è possibile investire in una produzione oltretutto
più impegnativa e costosa - ha commentato Guido Dall'Ara, presidente di
Assosementi, l'associazione delle aziende sementiere italiane - di fronte alla
scarsa propensione dei coltivatori biologici ad acquistarle. È un vero peccato
perché il nostro paese è comunque leader in Europa nella moltiplicazione di sementi
e la quasi totalità dei contratti per il biologico è fatta per paesi esteri»
(Ansa 22 luglio 2014). Sempre secondo i dati del CRA-SCS (ex ENSE), nel 2012 sono
state accolte oltre 32.000 richieste di deroga per l'utilizzo di sementi
convenzionali, pari al 91 per cento delle circa 35.000 richieste, concentrate
nei settori della coltivazione di ortaggi (circa 13.000 richieste, accolte per
l'88 per cento), di cereali (7.500 richieste, accolte per il 95 per cento) e di
foraggere (6.500 richieste, accolte per il 92 per cento) .
Il mercato del grano, caratterizzato da un eccesso
di offerta ormai strutturale, è inquinato da comportamenti di tipo speculativo
e anticoncorrenziale, che danneggiano i produttori; all'origine della crisi ci sono
però anche alcune scelte di politica agricola, dal disaccoppiamento degli aiuti
dell'Unione europea (slegati dalla produzione 10 anni fa, con l'aggravante di
aver cristallizzato una distribuzione dei sussidi che premia poche grandi
aziende), allo smantellamento degli altri due pilastri della politica europea:
il sostegno alle esportazioni e la protezione alle frontiere, con clausole di
salvaguardia sempre più difficili da attivare.
L'Italia è uno dei Paesi più importanti
d'Europa per ciò che concerne il primario, patria di coltivazioni e di
lavorazione degli stessi soprattutto nel settore cerealicolo. Nel mondo il nome
del made in Italy è accostato
soprattutto al settore agroalimentare e le produzioni tipicamente nazionali più
conosciute all'estero, come la pasta e la pizza, sono di derivazione del grano,
che in Italia ha trovato storicamente uno dei terreni più fertili per la sua
coltura e soprattutto per la sua trasformazione. Attualmente tuttavia secondo
le normative USA (CFR 319.59), a quanto risulta da comunicazione
dell'associazione italiana sementi, che ha indirizzato una lettera sulla
questione al ministero delle politiche agricole alimentari e forestali non
sarebbe possibile importare negli Stati Uniti dall'Italia, e da alcuni altri
Paesi, sementi di grano tenero (triticum aestivum) e duro (triticum durum) a
scopi commerciali per la semina, se non per piccole quantità a livello
sperimentale, soggette ad un import
permit specifico da richiedere preventivamente, e da coltivare «in serra» presso
una stazione sperimentale pubblica; tale importazione sarebbe invece consentita
per sementi prodotte da altri Paesi della UE, per esempio Austria, Francia,
Germania, Danimarca, Belgio, Olanda, Inghilterra, ed altri ancora. Secondo la
normativa statunitense al punto Sec. 319.59-3 (Articles prohibited importation pending risk evaluation)
l'organizzazione fitosanitaria nazionale del Paese soggetto alla suddetta restrizione
potrebbe contattare negli USA l'APHIS, Animal
and Plant Health Inspection Service (www.aphis.usda.com) per iniziare la
predisposizione di una «valutazione di rischio» e ove questa fornisca
rassicurazioni circa la pericolosità delle sementi, l'APHIS potrà intraprendere quelle azioni da escludere il Paese
dalla «lista nera».
Il compito delle istituzioni nostrane è quello di
dare alle imprese italiane la possibilità di competere alle stesse condizioni
sui mercati internazionali e non certo quello di ostacolarle facendo cadere nel
vuoto delle istanze del tutto legittime, e che certo dimostrano un'intollerabile
inerzia nei confronti di uno dei settori che più dovrebbe essere curato con
attenzione come quello dell'agroalimentare.
Quali sono e con quali tempi le iniziative urgenti
che il governo tricolore intende concretizzare utili a superare la grave crisi
che attanaglia i produttori italiani di frumento? Come si intende intervenire
per garantire una più equa redistribuzione del valore e ottenere la massima
trasparenza nella formazione del prezzo, sostenendo così la redditività degli
agricoltori e un sistema produttivo che genera ricchezza, occupazione e
salvaguardia ambientale? Dov’è la
commissione unica nazionale per la fissazione dei prezzi?
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