BIOGRAFIA

9.1.17

PANE DEL SUD


Pane della Daunia - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)
di Gianni Lannes

Un viaggio può iniziare da un solco nella terra. Il Mezzogiorno d’Italia non è solo un luogo geografico nel Mediterraneo, ma la solarità di una terra protesa tra cielo e mare. La sua storia è antica quanto l’essere umano e i frutti che il Meridione regala da sempre hanno radici profonde.

 
 Daunia: grano unico al mondo - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)


Un tempo, quando ero bambino, ancora negli anni '60, bisognava preparare la sera ‘u crescent, la pasta lievitata, per poter fare il pane in casa. Questa veniva impastata con circa un chilogrammo di farina, e si lasciava riposare buona parte della notte, coperta da un panno bianco e accuratamente sistemata sotto le coperte o nei letti dei bambini. Un chilogrammo di pasta lievitata era sufficiente per confezionare dieci chili circa di pane, e tutte le volte se ne conservava un po’ dentro la zuppire, una ciotola, in un luogo fresco. Era prima dell’alba che le donne di casa dovevano svegliarsi per preparare il pane, con un rituale quasi religioso: si coprivano il capo con un fazzoletto di cotone bianco, la mezza scolle, sistemavano ‘u tavelire sulla tavola nel centro della cucina, si segnavano la fronte e baciando la pasta lievitata iniziavano, con le mani a pugno, a impastare il tutto. Quelle grosse pagnotte di pane avrebbero sfamato per un’intera settimana, una famiglia numerosa. Era generalmente il venerdi che si preparava il pane, e si diceva: “Beneditte quidde pane ca ‘u vinardì se skane (“Benedetto quel pane che il venerdì si impasta)”. Le pagnotte, incise a forma di croce, si lasciavano riposare per ben due ore, affidando alla provvidenza il compito di una buona lievitazione dell'appetitoso alimento pronunciando questa parole: “Crisce, cri…”. Appena iniziava ad albeggiare le donne si recavano al forno dietro l’angolo con una tavola appoggiata sul capo, recante tre o quattro pagnotte coperte da un telo. A cottura ultimata si tornava a ritirare questo cibo sacro e ognuno aveva il suo segno distintivo. L'indimenticabile pane fatto in casa era di una bontà unica, e il suo buon odore inondava le vie di borghi e paesi. Rappresentava la ricchezza della famiglia e si manteneva sempre fresco, accuratamente conservato nella credenza o in un canestro di vimini. La mia nonna materna era insuperabile in quest'arte sublime. Il pane comunque era amaro. I poveri, infatti, vale a dire la maggioranza della popolazione, mangiava spesso soltanto pane e cipolle. Altri tempi? Non tutto è perduto.

Il pane di Monte Sant’Angelo appartiene alla nobile famiglia dei pani del Gargano. Esso viene solitamente ottenuto da semola rimacinata di grano duro della Daunia con l’aggiunta di acqua calda, sale e lievito naturale. Dopo aver lasciato lievitare l’impasto per alcune ore si procede a un’ulteriore lavorazione con l’aggiunta di altra semola, poi dopo aver inciso in senso circolare le forme e atteso altre due ore, si procede a infornarle per circa due ore a cottura lenta. Le pagnotte sono di forma circolare e arrivano a pesare anche 12 chili, ma le più diffuse sono quelle comprese tra i 2 e i 5 chilogrammi. La crosta relativamente spessa si presenta del colore del grano maturo, tendente al marrone; la mollica è compatta con un’alveolatura abbondante, mentre la consistenza è elastica e soffice. Il pane ha l’odore vero del grano e di farina appena setacciata, in bocca la crosta è friabile, mentre alla masticazione la mollica risulta elastica e compatta e ritornano i sentori di tostato della crosta e la sensazione leggermente acida del lievito.

Alla voce propaganda illusoria, mi viene in mente l’appropriazione pubblicitaria targata Barilla dell’alimentazione mediterranea, a base di ricette scopiazzate in tutta fretta dalla tradizione culinaria meridionale. Le panetterie dei supermercati sono false vendite al dettaglio. Oggi fa poca differenza se uno compra il pane da un fornaio familiare o da una catena di ipermercati: nel prodotto industriale spacciato per “genuino” c’è la stessa ingegneria speculativa. Le fabbriche alimentari approntano i prodotti da forno fino allo stadio finale: l’impasto viene surgelato e spedito al fornaio familiare dove è informato per fare l’immagine di fresco. Certo, il nuovo approccio tecnologico nel fare il pane, lo confeziona nella vecchia forma familiare della pagnotta. Ma la similitudine muore qui. L’industria ha già manipolato le molecole del grano dall’interno per ingannare con l’illusorio aspetto esteriore del prodotto. Le nuove tecnologie nel campo alimentare risultano invisibili per il pubblico. Comunque, il pane di ieri è buono anche oggi e domani.

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