BIOGRAFIA

3.4.14

NAVI DI VELENI: ECOMAFIE DI STATI E MULTINAZIONALI DEL CRIMINE

ET SUYO MARU  (già EDEN V) - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)




(LA SEGUENTE INCHIESTA ERA STATA PUBBLICATA NEL 2009, MENTRE L'INTERVISTA VIDEO RISALE AL GENNAIO 2010).

di Gianni Lannes  

Come si fa a smaltire un carico di rifiuti tossici e magari radioattivi? Elementare Watson: basta stivarlo su una nave in pessime condizioni e poi venderlo a qualche signore della guerra che in cambio chiede solo una buona partita di armi. Oppure comprare una carretta e affondarla insieme ai veleni. Dunque, si acquista un mercantile, si imbottisce di rifiuti pericolosi dichiarando un carico di materiale innocuo e, infine, si inabissa il natante o almeno si tenta; male che vada il relitto viene abbandonato alla deriva. Soltanto negli ultimi 25 anni sono state affondate misteriosamente circa una sessantina di navi nei mari a ridosso della penisola italiana (in particolare Tirreno, Jonio e Adriatico); ma la stima è errata per difetto, anche se soltanto i Lloyd’s di Londra ne certificano 40. Si tratta di imbarcazioni in condizioni disastrose da far sparire sia per truffare le compagnie assicurative sia per smaltire illecitamente sostanze pericolose. Parecchie di queste navi sono state utilizzate prima dell’inabissamento, sia per portare rifiuti verso paesi del Terzo mondo sia per il traffico di armi.


La concomitanza fra lo smaltimento illecito di rifiuti e il traffico di armi appare ormai come un dato fondante e svela lo scenario di un doppio coinvolgimento della mafia, ma soprattutto di governi, multinazionali e faccendieri in particolare dei nostri servizi segreti (ex Sismi e Sisde). Ecco un esempio a portata di binocolo. Un ras bellico di un paese africano (ad esempio la Somalia) ha bisogno di molto denaro per comprare armi e munizioni per equipaggiare le proprie milizie; per questa ragione viene contattato dai trafficanti, sovente in alta uniforme. In cambio della possibilità di scaricare in mare davanti alla costa o sulla terra ferma nel territorio controllato da questi, verranno forniti denaro, in parte, e direttamente armamenti. Un “prenditore” del ramo raccoglie rifiuti e scorie in qualche paese industrializzato dell’Occidente, offrendo tariffe per lo smaltimento (a buon mercato) molto più basse dell’usuale.
Questi materiali, spesso dichiarati come inerti o come rifiuti non pericolosi, vengono stoccati in qualche deposito temporaneo ben collegato con qualche porto (prevalentemente La Spezia, Civitavecchia, Trieste, Ortona, Manfredonia, Brindisi, Taranto, Crotone, Gioia Tauro). Si acquista una nave, meglio in pessime condizioni e si assoldano un comandante spregiudicato e un equipaggio alla fame. Nel frattempo un altro manager tratta con qualche signore della guerra, il prezzo del terreno o del tratto di mare dove scaricare i rifiuti. Ad accordo concluso, la nave raggiunge il porto di partenza, viene caricata e si allontana rapidamente. Prima di raggiungere la destinazione finale fa una breve sosta: carica le armi che, al confronto dei rifiuti, sono molto meno voluminose.
Raggiunta la costa del paese di destinazione finale, iniziano gli scarichi a mare, mentre emissari del leader locale salgono a bordo per ritirare armi e denaro. L’Italia è il porto finale europeo per navi sbarcate in Libano, Nigeria, Venezuela, Somalia, Romania. Fino a non molto tempo fa era prassi usuale di tutti i paesi nuclearizzati, Italia compresa, smaltire direttamente in mare i rifiuti nucleari. Con la firma del trattato internazionale London Dumping Convention del 1972 e del successivo (1976) Barcellona Dumping Protocol, che vietano lo smaltimento in mare di rifiuti in particolare di origine radioattiva, il problema delle scorie atomiche viene aggirato con i traffici illegali. A questo quadro di illegalità bisogna aggiungere un altro dato. La comunità europea in seguito alla Convenzione di Londra non può più eliminare parte delle sue scorie in mare. Questo impedimento sembra del tutto inaccettabile per i nuclearisti europei e per gli industriali senza scrupoli che pur di non sborsare i corretti oneri di smaltimento si sbarazzano dei propri residui dove capita. Ergo: si aggira l’ostacolo con il finanziamento di uno studio di smaltimento, sotto fondali marini argillosi precedentemente individuati, attraverso contenitori speciali detti penetratori. Una sorta di siluri sganciati da navi attrezzate in modo speciale dette Ro Ro e successivamente controllati via satellite.
Lo studio, finanziato per 120 milioni di dollari sia dalla Cee che da altri paesi come Usa, Svizzera e Giappone, viene terminato, ma non si passa mai, almeno ufficialmente, alla fase esecutiva. Nel 1986 scoppia il caso Chernobyl. E si fanno due valutazioni, una politica e una strategica: se si attua il progetto dei penetratori si rischia una sollevazione dell’opinione pubblica e in ogni caso un deposito sottomarino è difficilmente sorvegliabile. Il progetto dei siluri di scorie sembra essere definitivamente abbandonato: poi, invece, ricompare improvvisamente in modo del tutto imprevedibile. Febbraio 1995. 

Il Corpo forestale di Brescia (un nucleo di investigatori altamente qualificato, inspiegabilmente sciolto per disposizioni superiori) ferma tal Ripamonti che si stava recando in Svizzera per incontrare a Lugano l’avvocato Forni. Ripamonti è un emissario di Giorgio Comerio. Questo ingegnere – gli inquirenti hanno scovato  nella sua dimora il certificato di morte di Ilaria Alpi – è il factotum e principale artefice del progetto dei penetratori per la Odm, società che sostiene di aver ingegnerizzato il progetto dei penetratori lanciato dalla Cee nel 1989. La proposta di Comerio aveva come fine la realizzazione di enormi contenitori cilindrici, i penetratori, nei quali stivare altri 40 contenitori più piccoli pieni di scorie nucleari. L’avvocato Forni avrebbe dovuto fare da intermediario con il governo elvetico, mentre un altro personaggio di nome Convalexius, avrebbe dovuto svolgere lo stesso ruolo con il governo austriaco. L’Odm propaganda anche su Internet il suo progetto di smaltimento di rifiuti in mare, siano questi radioattivi o tossici. La società prospera: negli anni apre nuove sedi oltre a quella principale di Lugano risulta avere una rappresentanza a Mosca, il controllo di società in Lussemburgo e Lettonia, rapporti commerciali con Russia, Ucraina, Bulgaria, Romania, Adzerbaijan, Turkmenistan, Crimea, Kirgyzistan, Sudafrica, Gambia, Sierra Leone. Si apprende dai documenti di una commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti che Comerio avrebbe avviato contatti con i leader somali per l’utilizzazione dei penetratori nella parte di fondale davanti alla costa nord-occidentale della Somalia nei pressi di Bosaso. La stessa Odm asserisce di intrattenere relazioni con oltre 50 paesi e non specificate “Nuclear national authority”. 

La società ha individuato almeno 100 siti di inabissamento fra i quali sono state selezionate 30 zone ottimali. Tra queste è indicata proprio l’area somala già citata. La commissione presieduta da Massimo Scalia riporta come segnalazione accreditata dalle denunce di Unicef, Oms, Organizzazione marittima internazionale e Greenpeace, un’attività di trivellazione e di successivo inabissamento di containers in mare proprio nei pressi di Bosaso. Nella relazione conclusiva della Commissione si legge: “Peraltro la Commissione ritiene doveroso segnalare un’altra coincidenza: proprio nell’area in questione, e in particolare a Bosaso, ha svolto i suoi ultimi servizi televisivi prima di essere uccisa (a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ndr) la giornalista della Rai Ilaria Alpi, impegnata, secondo quanto emerso finora, in un’inchiesta giornalistica relativa a presunti traffici di armi”. Quanto a Comerio è inserito a pieno titolo nelle indagini sugli affondamenti delle navi nel Mediterraneo. Su una sua agenda, alla data dell’affondamento della “Rigel”, è scritto “la nave è affondata”. Una coincidenza? A bordo della “Rosso” vengono trovati dei documenti e delle mappe. Copia delle stesse vengono trovate da Comerio. Vi sono segnalati alcuni punti e due di questi corrisponderebbero agli affondamenti nell’’Adriatico centro-settentrionale di altre due navi, la “Anni” e la “Euroriver”.
Un’altra coincidenza? La Odm in un modo o nell’altro figura in numerose inchieste sui traffici, in particolare internazionali, di rifiuti radioattivi. Comerio poi viene arrestato su ordine della magistratura di Bolzano, per tutt’altra vicenda. La notizia è dell’ottobre 1996: si tratta di una mazzetta di trenta milioni di lire per una perizia aggiustata su alcuni lavori eseguiti sulle nuove linee ferroviarie dell’alta velocità. Da quanto si apprende dal lancio Ansa che segnalava il caso, Comerio è stato arrestato mentre ritirava la tangente dalle mani di un imprenditore che stava collaborando con gli inquirenti.
Ma torniamo alle navi affondate nello Jonio e nel canale di Sicilia. Per alcuni le indagini sono state condotte in un clima di forte tensione. La morte improvvisa e misteriosa del capitano di corvetta Natale de Grazia nel ’95, uno degli investigatori di punta che collaborava con i magistrati di Reggio Calabria, in particolare Francesco Neri e Nicola Maria Pace a Matera, si è andato a sommare ai numerosi casi di intimidazione denunciati negli anni. Uno dei più gravi problemi che la magistratura ha dovuto affrontare è stata la scarsità dei mezzi necessari per poter effettuare ricerche, rilievi e analisi per accertare la verità sugli affondamenti. Il calendario segna il primo marzo 1994, quando dal porto di Durazzo salpa la motonave “Korabi Durres”  battente bandiera albanese. I documenti di carico indicano un trasporto di rottami di rame. La nave si dirige verso le coste italiane, sfiorando il litorale pugliese. Il 2 marzo raggiunge l’area dell’antiporto di Crotone; il giorno seguente la locale capitaneria portuale, sospettando la presenza di immigrati clandestini, sale a bordo per un’ispezione; nella stiva, però, si trovano soltanto rottami metallici gettati alla rinfusa: 1.200 tonnellate di carico. 

Il 4 marzo la “Korabi” giunge a Palermo, nuova ispezione al largo con rilievi più approfonditi fra i quali alcuni specifici per verificare la presenza di eventuali tracce di radioattività. Che vengono puntualmente riscontrate. Alla nave sono negati l’accesso al porto e il permesso per scaricare il carico a terra. Il 9 marzo alle ore 11,30 la “Korabi” lascia la rada portuale di Palermo diretta a Durazzo. Il 10 naviga nelle acque di Pentimele vicino a Reggio Calabria e le autorità marittime effettuano una nuova ispezione, ma questa volta, al contrario di quanto riscontrato in Sicilia, non viene rilevata alcuna traccia di radioattività. Scattano indagini giudiziarie per scoprire se la “Korabi” ha scaricato in mare parte del carico, ma nel frattempo la nave si è allontanata e se ne perdono le tracce, nonostante la presenza di una flotta Nato per l’embargo alla Jugoslavia. Ricompare più di un anno dopo a Pescara, il 20 aprile ’95, dove viene sequestrata e nuovamente controllata a fondo. Il capitano Curri Hysen Hajri, viene trattenuto in arresto. Effettuati tutti i controlli, non vengono trovati picchi di radioattività a bordo e la nave, dissequestrata riprende il largo. Che fine ha fatto il carico che il 4 marzo 1994 risultava contaminato? 

Aprile 1994. Al largo delle coste della Campania, davanti a Salerno, si segnala la presenza di radioattività da torio 234, primo prodotto del decadimento dell’uranio 238, su campioni di alghe e materiale ferroso prelevati a seguito del rinvenimento in mare di alcuni container persi nel naufragio della nave “Marco Polo”. La nave si era inabissata nel maggio del 1993 all’altezza del canale di Sicilia. Le analisi relative a uno di questi containers superano di 5 volte i valori “normali”. 

L’affondamento della “Marco Polo”, sul quale è stato aperto un procedimento della Procura di Reggio Calabria ha diverse analogie con un altro affondamento avvenuto nelle acque di Ustica, quello della “Koraline”.  Anche in questo caso, a seguito del rinvenimento di alcuni container, è stata segnalata la presenza, in concentrazioni anomale, di torio 234. Altra nave altra storia. Nel dicembre 1990 al largo di Vibo Valentia la “Rosso” si trova in difficoltà e richiede assistenza. Viene trainata per un tratto e in breve finisce per arenarsi a Capo Suvero. La Capitaneria di porto, che sale a bordo, trova alcuni elementi sospetti, e si affretta a richiamare i vigili del fuoco per rilevare la radioattività del carico. Gli elementi rinvenuti a bordo sono dei documenti che richiamano i trasporti di scorie radioattive e indagini già in corso su auto-affondamenti nel Mediterraneo. Le operazioni di recupero vengono attuate dalla società Castalda e da un’altra società. Olandese, specializzata nel recupero di scorie radioattive. Quest’ultima, la “Smit Tak”, divenne celebre nel 1981 per il complesso recupero, del carico di una nave affondata nella Manica che trasportava scorie radioattive. Le operazioni di recupero sulla “Rosso” durano due mesi, poi, nonostante la nave risulti essere in buone condizioni, viene rottamata in tutta fretta. Una parte del carico, definita “materiale putrescente” dalle autorità, finisce in discariche calabresi. Ma sulle operazioni di recupero sorgono altri dubbi: perché è stato aperto un varco nello scafo nel lato non visibile da terra; fra l’altro, vista l’inclinazione dello scafo, il meno idoneo per operazioni di scarico? 

La “Rosso” era già salita agli onori della cronaca alcuni anni prima con il nome di “Jolly Rosso”, una delle famigerate “navi dei veleni” che transitarono per i porti di mezzo mondo prima di essere bloccate o bonificate del loro carico illecito di rifiuti tossici e nocivi che spregiudicati faccendieri italiani cercavano di scaricare sulle spalle di alcuni paesi del terzo Mondo. Nomi come “Koko” (in Nigeria), “Jolly Rosso”, “Karin B.”, “Deep Sea Carrier”, “Lynx”  e “Zanoobia” sono legati all’emergere di traffici illeciti di rifiuti dal nord al sud della Terra. In quel frangente l’opinione pubblica cominciò a percepire che l’Italia era al centro di attività illecite e di giri di affari colossali nel settore dei rifiuti pericolosi. Un’altra nave ancora.: il 21 settembre 1987 fa naufragio la “Rigel” al largo di Capo Spartivento (a 54 miglia dalla costa). Si tratta di un affondamento entrato nelle cronache giudiziarie grazie a un procedimento per truffa ai danni della compagnia assicuratrice. Sui documenti di carico, secondo gli inquirenti, era dichiarata merce mai salita a bordo della “Rigel” ma registrata per ottenere il risarcimento del danno. La “Rigel” affonda nello Jonio senza lanciare alcun “May Day”. Dopo l’affondamento, l’equipaggio sparisce e non si riesce neppure a rintracciare il comandante. Il viaggio della “Rigel” era iniziato a Marina di Carrara dove, secondo le accuse formulate dalla magistratura spezzina, era stato corrotto un funzionario per evitare l’ispezione del carico. La magistratura di Reggio, intanto, avanza il sospetto di un trasporto pericoloso inerente il traffico illecito di scorie radioattive. Si è trattato un auto-affondamento effettuato per ottenere due vantaggi illeciti: truffa alla compagnia assicuratrice e smaltimento illegale di rifiuti nucleari. Lo stabilisce la sentenza della Corte di cassazione del 10 maggio 2001 dopo le sentenze di condanna della Corte d’Appello di Genova (10 novembre 1999) e La Spezia (20 marzo 1995).

Versante orientale del Mediterraneo. I fondali e i litorali del Gargano e delle Isole Tremiti ospitano alcuni relitti abbandonati con le scorie e addirittura un cimitero subacqueo di containers, una sorta di bomba ecologica ad “orologeria.” Per 4 lustri l’Eni (stabilimento Anic-Enichem di Manfredonia) e la Montedison  (stabilimento Saibi non ancora bonificato a Margherita di Savoia, nel cuore delle saline più grandi d’Europa) hanno sversato al largo del promontorio garganico e delle Isole Diomedee migliaia di tonnellate di rifiuti chimici (fatti acclarati in tribunale: la vicenda delle navi “Irene”  e  “Isola Celeste”). Un altro esempio per tutti: i mercantili “Et Suyo Maru” e “Panayiota”.  A 12 miglia al largo di Vieste esiste sui fondali un cimitero subacqueo di containers. Nel luglio del 1998 i cosiddetti “cassoni”  metallici che hanno causato la morte del pescatore Cosimo Troiano  (26 anni, di Manfredonia) vengono filmati dai sub del Comsubin (Marina militare).  Nel lago costiero di Varano (comunicante mediante due canali con l’Adriatico) recentemente il Cnr ha trovato il cesio 137, un radionuclide artificiale. Allora, è tutto normale e sotto controllo? 

L’opinione pubblica è disinformatata a puntino? C’è una nave in fondo al mare, anzi ce ne sono tante, troppe. Navi cariche di morte. E c’è un paese, l’Italia, con la sua lunga e antica tradizione marinara, che è fin troppo abituata a veder transitare al largo delle sue coste e nei suoi porti ogni tipo di traffico illegale. Al massimo se ne parla ma non si fa niente per combattere un consolidato sistema di esportazione istituzionale degli scarti mortali di origine industriale e sanitaria. Non c’è da stare allegri: il Mediterraneo (ma non solo) è stato trasformato in una pattumiera industriale con esiti imprevedibili sulla vita che lo popola e che da esso dipende, compreso l’essere umano. Che fare nell’immediato? Almeno il minimo in uno Stato di diritto: monitoraggio, recupero, bonifica a carico dei (spesso) noti responsabili e indagini epidemiologiche sui territori. I vari governi (di centro destra e centro sinistra) sono responsabili di questo disastro ambientale e sanitario. Nei palazzi del potere sanno ma tacciono. Da tempo sono stati  contattati i ministri italiani della Difesa e dell’Ambiente e loro, nemmeno rispondono, alla stregua dei latitanti sindaci garganici del presidente della provincia di Foggia. 

Qualcuno per fortuna si è fatto vivo:  Jerzy Buzek, il presidente del Parlamento europeo ha promesso un interessamento dell’Ue e sulla base di una nostra inchiesta è stata appena depositata un’interrogazione a Strasburgo. Nel frattempo, come è noto alle autorità sanitarie locali e nazionali, nella popolazione della montagna del sole si registra un impennamento di neoplasie maligne e malformazioni nei bambini. Esiste un nesso di causalità con l’evidente inquinamento marino della costa?  Qual è il grado effettivo di contaminazione ambientale? Perché in nessun ospedale della Capitanata esiste un registro tumori? Per le autorità è come al solito “tutto a posto”? I parlamentari pugliesi seguiteranno a dormire sonni beati scaldando le agognate poltrone o preferiranno dimettersi e andare a lavorare? Il governatore Vendola, da anni ben informato, ora farà finalmente qualcosa? Il prefetto Nunziante potrebbe adottare qualche provvedimento risolutivo in tempi rapidi prima che qualcuno perda la pazienza dinanzi a tanti morti e malati di cancro?  In materia  imperversa l’improvvisazione. Legambiente, ad esempio, almeno per l’Adriatico nonostante il transito continuo e ben sponsorizzato di Goletta Verde alle Tremiti e nel Gargano, stranamente non si è resa mai conto del fenomeno, ma ora ha addirittura scopiazzato integralmente lo stralcio di alcune inchieste giornalistiche senza citare la fonte (vedi elenco navi affondate 1979-2001). Il Gargano non è il terzo mondo europeo e tantomeno una discarica.


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