31.7.12

MARI ED OCEANI DI PLASTICA


di Gianni Lannes


Dalle fabbriche chimiche alla terra, ai fiumi, ai fondali marini. E’ il viaggio percorso da 130 milioni di tonnellate di plastica - un ammasso grande quanto l’Europa centrale - prodotta ogni anno e rilasciata nell’ambiente, dove si accumula sotto forma di particelle e di fibre più piccoli di un centimetro. Sono corpuscoli microscopici che si formano dalla graduale rottura e abrasione degli oggetti in plastica, vestiti, corde, contenitori. Circa 1000 miliardi di sacchetti di plastica sono fabbricati ogni anno nel mondo. Gli involucri sono costituiti per la maggior parte di polietilene o, più raramente di PP (polipropilene) o di PVC (polivinile cloruro). Queste materie prime derivano al 100 per cento da prodotti petroliferi e non sono biodegradabili. Ci vuole meno di un secondo per fabbricare un sacchetto di plastica che resterà mediamente 20 minuti in mani umane ma impiegherà 450 anni per sparire nella natura. Il tappo di plastica di una bottiglia può navigare per i mari inalterato per più di un secolo. 

Rodi Garganico.

Studi Onu
- Il dottor JamesLudwing, che si trovava sull’Isola di Midway, nel Pacifico, molto lontano dai centri abitati, a studiare gli albatros, quando ha cominciato a raccogliere il contenuto dello stomaco di otto pulcini di albatros morti, ha scoperto i frammenti di 42 tappi di plastica e 18 accendini. I piccoli uccelli erano stati nutriti dai loro genitori che non erano stati in grado di riconoscere i rifiuti nella scelta del cibo. Intere bottiglie, pezzi di polistirolo e sacchetti della spesa sono stati trovati negli stomaci di leoni marini, delfini, tartarughe. E pezzi di plastica sono stati rinvenuti anche in esemplari di procellaria artica, una varietà di gabbiano. La plastica ha un forte impatto ambientale perché, non essendo biodegradabile, entra nella catena alimentare quando viene ingerita da uccelli o pesci di grossa taglia. I dati ufficiali parlano chiaro: «I rifiuti di plastica uccidono fino a 1 milione di uccelli marini, 100.000 mammiferi marini e una quantità immensa di pesci ogni anno. Le creature marine uccise dalla plastica si decompongono ma la plastica non si decompone. La plastica rimane nell’ecosistema per uccidere ripetutamente» attesta l’Unep (UnitedNations Environment Programme), l’organismo delle Nazioni Unite per la difesa dell’ambiente. Ogni giorno le acque del pianeta Terra sono inquinate da notevoli quantità di petrolio e da fiumi di sostanze chimiche. «L’80 per cento di tutto l’inquinamento nei mari e negli oceani proviene da attività svolte sulla terraferma» rivela il rapporto dell’Onu («50 fatti-chiave per mari ed oceani»). E la maggior parte dei rifiuti in questo habitat primordiale (fino al 95 per cento) è costituito da materie plastiche. Alcune campagne di osservazione aerea hanno evidenziato che i rifiuti di plastica rappresentano la maggior parte delle scorie trovate in fondo al mare: «tra il 60 e il 90%». I fiumi al loro sbocco, gli agglomerati urbani situati sul litorale, le zone turistiche, come pure le navi (commerciali e da turismo) sono responsabili per la maggior parte della produzione di macro-rifiuti sulle coste. Le conseguenze dei sacchetti di plastica in mare sono nefaste. Il loro ristagno sulla superficie del mare e fra le rocce provoca, impedendo alla luce di penetrare, il riscaldamento della temperatura dell’acqua e un’alterazione della catena alimentare. Inoltre, alcuni grandi organismi marini (tartarughe, cetacei, tonni) confondono i sacchetti di plastica con una loro fonte di nutrimento (meduse) e rimangono soffocati. A 1 metro quadrato di posidonia ci vogliono 450 anni per formarsi. E’ lo stesso tempo che impiegherà il sacchetto di plastica che tappezza i fondali per scomparire. Tutta la ricerca scientifica dimostra che la quantità e gli effetti tossici sono significativi e tendono ad aumentare.



Oceani soffocati - Un’ enorme distesa di rifiuti e di pezzi di plastica si estende nell’Oceano Pacifico tra le isole Hawaii e la costa Californiana. Il volume complessivo della massa di rifiuti è sei volte la quantità di plancton che vive nello stesso tratto di mare. Secondo CharlesMoore, esperto della fondazione californianaAlgalita Marine Research, «la proporzione tra rifiuti plastici e plancton in quella zona è pari a sei a uno: un chilo di plancton contro sei di plastica. Inoltre questi rifiuti galleggiano sulla superficie del mare e occupano lo stesso spazio occupato dai microrganismi marini». Uno studio condotto dall’Algalita Marine ResearchFoundation evidenzia che «Le zone dei cosiddetti vortici subtropicali dove le correnti girano in senso orario, si sono rivelate perfette prigioni per i rifiuti galleggianti. Al centro di ognuno dei “vortici subtropicali” oceanici, ove le correnti marine si muovono secondo percorsi circolari e dove raramente passano navi, sono rimasti intrappolati milioni di tonnellate di rifiuti di plastica di ogni genere, sei volte la quantità del plancton presente». In particolare, «al centro del vertice subtropicale del Pacifico settentrionale s’è creata un’area estesa quanto il Texas in cui la concentrazione di plastica è di 10 chilogrammi ogni 100 metri quadrati». La plastica, che ha navigato per anni prima di finire in trappola, si presenta inoltre in frammenti che attirano pesci e uccelli. «Il problema - spiega CharlesMoore - è che gran parte di queste plastiche inglobano sostanze tossiche, che in questo modo entrano nella catena alimentare e prima o poi entreranno a chi le ha prodotte, l’uomo, sotto forma di veleno». In questa zona si trovano ancora i resti di un carico di scarpe finito in mare nel 1990. Una parte dei rifiuti finisce sulle spiagge Usa. Secondo alcuni calcoli della NationalOceanicandAtmosphericAdministration americana (NOAA) «il materiale inquinante potrebbe rimanere intrappolato dalle correnti per almeno 16 anni». La crisi dei territori marini è gravissima. A lanciare il grido d’allarme è “America’s Living Oceans”, il rapporto realizzato dalla PewOceansCommission, un’organizzazione indipendente di Washington della quale fanno parte intellettuali, scienziati e ambientalistibipartisan. Un recente studio dell’Accademia nazionale delle Scienze dimostra che i residui di combustibili che finiscono in acqua sono pari, in un periodo di 8 mesi, al carico versato in mare nel 1989 dalla petroliera ExxonValdez (41 milioni di litri). Negli Stati Uniti d’America due terzi degli estuari e delle baie sono gravemente affetti da eutrofizzazione. Oltre 13 mila spiagge soltanto negli Usa, sono state chiuse per inquinamento nel 2004: un aumento del 30 per cento rispetto all’anno precedente. Bottiglie, buste e altri oggetti di plastica che galleggiano sull’acqua o che si arenano sulle coste non sono che la parte emersa dell’inquinamento che avanza. Microscopici frammenti di plastica si accumulano nei sedimenti e nei terreni pelagici, lo rivela un gruppo di ricerca britannico. Il professor RichardThompson, dell’Università di Plymouth, ed i suoi colleghi hanno analizzato sedimenti prelevati da 17 spiagge ed estuari in Gran Bretagna, sia vicino alle coste che a maggiore profondità. Gli scienziati hanno scoperto che la maggior parte dei campioni includeva tracce di molti tipi di plastiche o polimeri, compresi nylon, poliestere e acrilico. Hanno inoltre dimostrato che quando creature come arenicole e cirripedi si nutrivano dei sedimenti, le plastiche ricomparivano nel loro corpo entro pochi giorni. Gli scienziati hanno analizzato campioni di plancton prelevati fra la Scozia e l’Islanda sin dagli anni Sessanta, scoprendo che nel corso del tempo il contenuto di plastica è aumentato significativamente. Anche gli strati di sabbia e fango più remoti e apparentementeincontaminati sono ormai composti in parte da questa spazzatura microscopica, disgregata dai rifiuti gettati via. Tale inquinamento invisibile a occhio nudo è cresciuto nel tempo. Il lavoro è stato pubblicato dalla rivista Science (n. 304, maggio 2004). «Negli ultimi 40 anni - scrivono gli scienziati - grandi pezzi di plastica sono stati individuati negli habitat marini dai poli all'equatore. Sono stati segnalati anche frammenti più piccoli, ai quali però si è prestata meno attenzione». E Thompson confessa: «In realtà le misure sono sottostimate, perché l’apparecchio usato individua solo particelle colorate con un diametro maggiore di venti micrometri». Soprattutto sui fondali sabbiosi è stata identificata la presenza di ben nove plastiche di tipo diverso, usate per produrre vestiti, imballaggi e cavi. «Probabilmente tutti questi frammenti rappresentano soltanto una minima parte di quelli realmente dispersi nell’ambiente», annota ancora Thompson. Quali gli effetti di questo velo di plastica che si sta stendendo sugli oceani? «E’ presto per dirlo - risponde l’esperto - In alcuni esperimenti, però, si è visto che paguri e altri piccoli animaletti acquatici possono ingerire questi frammenti. Il timore è che le sostanze tossiche della plastica entrino in questo modo nella catena alimentare, minacciando la salute non solo degli altri organismi acquatici ma anche dell’essere umano». Dagli anni Sessanta ad oggi, la percentuale di spazzatura di plastica nei mari e negli oceani è più che triplicata. «Da una parte abbiamo i rifiuti lasciati dagli esseri umani lungo le spiagge e che poi vengono trascinati dalle correnti, dall’altra il fenomeno della risalita delle acque profonde», spiega Antonio Pusceddu, docente di Ecologia presso l’Università delle Marche e studioso della cosiddetta “beach litter”, la spazzatura di spiaggia. «La plastica è un residuo inerte che in oceano diventa un substrato duro, cosa che permette in tempi rapidi la colonizzazione da parte di organismi incrostanti, dai batteri alle spugne e coralli». I detriti di plastica libera, fluttuante, possono diventare trasportatori di specie per migliaia di chilometri. Si conoscono per esempio varietà biologiche che si sono spostate dall’Artico all’Atlantico utilizzando questo nuovo vettore. Dopo il Pacifico anche l’Atlantico settentrionale - dagli Usa fino a Cuba - una gigantesca isola di plastica staziona in mezzo al mare. La priva dell’esistenza di questa “North AtlanticGarbage Patch” è stata documentata dagli scienziati della SeaEducationAssociation in collaborazione con il WoodsHoleOceanographicInstitution e la Universityof Hawaii. Questo conglomerato di rifiuti vanta un’estensione di 15 milioni di chilometri quadrati ed una profondità media di 10 metri. Uno studio del Virginia Instituteof Marine Science ha censito 405 zone morte (una anche nel Tirreno del nord), con una superficie totale di 250 mila chilometri quadrati: l’equivalente della Nuova Zelanda. La causa è a terra: sotto accusa i fertilizzanti agricoli e i detersivi casalinghi. Notate all’inizio degli anni ’70, “le aree prive di ossigeno si trovano ormai dovunque” spiega Robert Diaz, il biologo marino autore della ricerca. “Le attività umane hanno fatto andare a rotoli l’equilibrio dell’ossigeno nelle aree costiere”. Il processo che causa la proliferazione delle zone morte nasce dalla diffusione nell’acqua di azoto e fosforo. Senza contare l’inquinamento militare, il più pericoloso, eppure mai monitorato.


Sos Mediterraneo - In Italia il fenomeno investe particolarmente Alto Tirreno e Medio Adriatico, a dispetto delle bandiere blu. Secondo alcuni studiosi nipponici dell’università Nihon a Chiba, la plastica si decompone per esposizione alle intemperie, rilasciando numerosi composti tossici che sono assorbiti dagli animali marini con conseguenze potenzialmente drammatiche. Iniziano a notatrsiaggregazioni simili anche al largo del Cile e nell’Atlantico meridionale, tra Argentina e Sud Africa. Il Mare Nostrum merita un’attenzione particolare per le sue caratteristichesvantaggiose: da una parte la sovrappopolazione delle sue coste, dall’altra lo sbocco di fiumi come il Po e il Reno che riversano una enorme quantità di rifiuti e detriti. «Il fatto di essere semichiuso e particolarmente caldo anche ad alte profondità fa sì che si creino zone di accumulo che portano all’estinzione di specie», spiega l’ecologo Pusceddu. Come affrontare il problema? «La ricerca si sta spostando in questo momento sui microrganismi e batteri capaci di degradare qualsiasi tipo di organismo, compresi, in alcuni casi, gli idrocarburi». Batteri in grado di rendere meno pericoloso il petrolio. Un rapporto dell’UNEP ha fornito per la prima volta un quadro completo sulla quantità di sostanze tossiche accumulate nel corso degli anni in questo antico bacino. Il WWF, assieme ad altre 16 ONG (tra cui Greenpeace e Friendsof the Earth), ha presentato una petizione ai governi dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che non hanno ancora ratificato il Protocollo sulle fonti di inquinamento della terra ferma (“Land BasedSourcesof Pollution”). Secondo il rapporto, ogni anno vengono scaricate in mare 55 tonnellate di lindane - un pesticida il cui uso è vietato nell’UE dall'inizio degli anni ‘90. Il lindane è uno dei cosiddetti POP (PersistentOrganicPollutants o Inquinanti Organici Persistenti), un gruppo di pesticidi e sostanze chimiche industriali come i PCB, le diossine e il DDTestremamente tossici. Gli effetti documentati di questi composti comprendono attività cancerogene, immunodepressive e endocrino-distruttive sia negli animali che negli esseri umani. La presenza di sostanze altamente inquinanti nel Mediterraneo è più pericolosa se si pensa che è un mare chiuso e impiega quasi un secolo al ricambio delle acque. Il rapporto UNEP stima che la Francia è il paese che ha rilasciato più pesticidi clorinati, escluso il lindane, nel Mediterraneo. L’Italia è al secondo posto dietro la Francia nella produzione di diossine, seguita da Spagna, Grecia e Portogallo. Lo studio afferma che «circa i 2/3 delle diossine vengono dalle attività industriali». Un esempio? L’Ilva a Taranto produce il 92 per cento della diossina nazionale (dati Ines). L’Italia invece è prima nell’inquinamento marino da metalli pesanti come piombo, cadmio, rame e zinco, essendo responsabile del 30 per cento dei rilasci totali di queste sostanze trovate nel Mediterraneo. Ogni anno, il Belpaese produce 2,174 tonnellate di piombo (la Spagna 944 e la Francia 868); 30 tonnellate di cadmio (14 tonnellate in Spagna e 12 in Francia); 8,576 tonnellate di rame (la Turchia 2,220 e la Serbia 1,950); 1,949 tonnellate di zinco (la Serbia 1,804 e la Francia 1,310). Italia e Grecia assieme hanno rilasciato in mare 13 tonnellate di mercurio, il metallo pesante più pericoloso per l'ambiente e la salute umana, mentre la Spagna ne ha sversate 18 e la Francia 17. L’implementazione del protocollo impedirebbe il rilascio di questi altri livelli di inquinanti organici. Algeria, Bosnia Herzegovina, Croazia, Egitto, Israele, Libano, Libia, Serbia e Syria devono ancora ratificarlo. Di questi paesi, servono solo 3 firme per permettere che il protocollo diventi legalmente vincolante per le nazioni del Mediterraneo che hanno ratificato la Convenzione di Barcellona. 16 ONG hanno chiesto a questi paesi di procedere il più presto possibile e non più tardi di 6 mesi, per permettere al trattato di entrare in vigore. La plastica, come i diamanti, è per sempre, ma almeno per l’Oceano Indiano si corre ai ripari. 

Tutela di carta - Ricoprono circa il 71 per cento della superficie della Terra e svolgono un ruolo fondamentale per il mantenimento della vita: infatti, più del 90% della biomassa vivente si trova negli oceani. Eppure soltanto lo 0,5 per cento delle acque planetarie è protetto da norme di tutela contro il 10,5 per cento della parte terrestre: sono 102.102 le aree protette nel mondo e soltanto 4.116 sono aree protette marine, per una superficie di circa 1,6 milioni di kmq dei mari e degli oceani. Tra i mali che affliggono gli oceani al primo posto c'è l’inquinamento, per l’80 per cento proveniente da attività terrestri, causa di morte e depauperamento delle risorse marine. La fioritura di alghe nocive, causate da un eccesso di nutrienti, principalmente azoto proveniente dai fertilizzanti in agricoltura, hanno creato 150 aree senza vita costiera a livello mondiale, estese da 1 a 70.000 kmq. «Morti e malattie causate dalle acque costiere inquinate costano all’economia globale 12,8 miliardi di dollari all’anno. Più di 3 miliardi e mezzo di persone dipendono dall’oceano come fonte primaria di cibo. Ogni anno, 21 milioni di barili di petrolio raggiungono il mare a causa del dilavamento delle strade, dagli scarichi delle fabbriche e dalle navi che scaricano i loro serbatoi. Nell’ultima decade, in media 600.000 barili di petrolio all’anno sono stati sversatiaccidentalmente dalle navi per l’equivalente di 12 disastri ambientali come quello causato nel 2002 dalla petroliera “Prestige”» documenta l’ultimo rapporto dell’Unep. Ogni quattro secondi un’area di fondali marini grande come dieci campi di calcio viene distrutta dalla pesca a strascico in mare aperto.

Inquinamento marino.




Italia, veleni in mare.

Inquinamento mediterraneo.

Plastica ripescata.


2 commenti:

  1. Soluzione ? ...batteri .. biotech... certo

    THE GULF BLUE PLAGUE: IT'S NOT WISE TO FOOL MOTHER NATURE [1/4]
    http://www.youtube.com/watch?v=iaJvqTFwPeE

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  2. Droni ....


    Plastic-Eating Underwater Drone Could Swallow the Great Pacific Garbage Patch

    http://www.popsci.com/technology/article/2012-07/plastic-eating-underwater-drone-could-swallow-great-pacific-garbage-patch

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